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Poema: Los Rios.por Jorge Luis Borges

Somos el tiempo. Somos la famosa

parábola de Heráclito el Oscuro.

Somos el agua, no el diamante duro,

la que se pierde, no la que reposa.

Somos el río y somos aquel griego

que se mira en el río. Su reflejo

cambia en el agua del cambiante espejo,

en el cristal que cambia como el fuego.

Somos el vano río prefijado,

rumbo a su mar. La sombra lo ha cercado.

Todo nos dijo adiós, todo se aleja.

La memoria no acuña su moneda.

Y sin embargo hay algo que se queda

y sin embargo hay algo que se queja.

LES FLEUVES
Nous sommes temps. Nous sommes la fameuse

parabole d'Héraclite l'Obscur,
nous sommes l'eau, non pas le diamant dur,
l'eau qui se perd et non pas l'eau dormeuse

Nous sommes fleuve et nous sommes les yeux

du grec qui vient dans le fleuve se voir.
Son reflet change en ce changeant miroir,
dans le cristal changeant comme le feu.

Nous sommes le vain fleuve tout tracé,
droit vers sa mer. L'ombre l'a enlacé.
Tout nous a dit adieu et tout s'enfuit

La mémoire ne trace aucun sillon.
Et cependant quelque chose tient bon.
Et cependant quelque chose gémit.

Traducción de :Jacques Ancet
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Borges por Cristina Campo

In un racconto di Borges, L’immortale, si narra di un misterioso antiquario, Joseph Cartaphilus da Smirne; “un uomo consunto e terroso, grigio d’occhi e di barba, dai tratti singolarmente vaghi, che si esprimeva con scioltezza in diverse lingue”. Sappiamo di costui attraverso un manoscritto ch’egli lascia dietro di sé, la atroce e labirintica storia di uno che beve l’acqua degli immortali e prima di essere Cartaphilus fu un interlocutore scozzese del Vico, e prima ancora un astrologo boemo e uno scriba arabo, che era stato a sua volta un centurione di Domiziano in Tebe — e ancora un’ombra disperata e divina che si esprimeva con le parole di Omero.

È difficile, leggendo Borges, non confondere oscuramente Cartaphilus con l’uomo che lo ha creato, credere da vero a l’esistenza di questi: estremamente miope signore di sessantanni, direttore della biblioteca di Buenos Aires, animatore del gruppo di “Sur”; tre o quattro volte sfiorato da quell’evento, sempre più mestamente circostanziato, che è il premio Nobel per la letteratura. A mala pena ricordiamo certe sue vecchie fotografie, che ce lo mostrano un poco bruno di pelle, un poco obeso, più spagnolo assai che non inglese, benché in lui confluiscano questi due sangui e in più una vena portoghese e un’educazione svizzera. Apriamo un suo libro: El Aleph, Ficciones, Historia universal de la infamia, Historia de la eternidad, ed ecco Borges disparire nelle proprie parole, rifarsi antichissimo e al dilà di ogni razza: un uomo appunto “dai tratti singolarmente vaghi” cui certo non è facile giungere, che forse è addirittura morto da tempo e solo riappare fugacemente qua e là, sotto le spoglie di un ermetico viaggiatore.

Borges è forse il solo narratore-umanista che il mondo ancora possegga; è il lirico della storia, l’erudito della poesia, nei cui testi si incontrano e si sublimano, in abbaglianti e capziose alchimie, i segreti splendori di tutte le tradizioni, in particolare, data la nascita e la natura di Borges, l’arabo-ispanica : la platonica, dunque, e la catara, la gnostica, la cabalistica, l’alchimica. Il tutto complicato da una perfida e soavissima rete di cerimoniali ironie: il favolista rituale indossa panni inglesi.
Borges a reso omaggio, in più luoghi, agli autori moderni che “continuamente rilegge”: Schopenhauer, De Quincey, Stevenson e, poichè non c’è accostamento impossibile al suo astrale snobismo, Chesterton, Shaw, Léon Bloy. Ma a due nomi molto diversi, leggendo i suoi racconti più puri, corre subito la memoria: l’Hoffmannstahl di Andreas, della Lettera di Lord Chandos a Bacone da Verulamio, e l’Ernst Jünger delle Scogliere di marmo. Ma il chiaro fuoco spirituale del primo (che sa levarsi ogni volta all’attimo dell’unio mystica) e il tenace gelo del secondo, sono per così dire oltrepassati da Borges in uno stile di impenetrabile cristallo, che è lo stesso cristallo del mondo in cui si muove: un mondo in tutto simile agli specchi; sì che a volte queste innumerevoli riflessioni sembrano infrangersi l’una contro l’altra in un lampo che acceca e distrugge. Non resta che il puro, l’imperscrutabile vuoto al quale Borges dà volontieri il nome di Dio, in uno dei suoi inchini profondi e recitati di mussulmano alla Mecca.

In verità, in ogni suo racconto si ripete questa magica collisione, che ha l’intento di ricondurci ogni volta ad un’antica parola: Tutto è l’Uno. Come nella scuola di tiro d’arco Zen, anche cui il tiratore dovrà farsi allo stesso tempo arco freccia e bersaglio, dimenticare che — e perché — sta tirando d’arco; e allora non avrà più importanza la propria o l’altrui vita, il proprio o l’altrui destino, poiché chi scocca l’arco è il Tutto, come lo è chi riceve la freccia. Ma nei racconti di Borges questa scoperta non è il frutto imprevedibile e spontaneo della lunga dedizione buddista, anzi è una illuminazione perfettamente tragica: l’attimo appunto che infrange tutti gli specchi, il barbaglio in cui le immagini sovrapposte si annientano, lasciando appena l’ombra disegnata, come l’uomo sul ponte di Hiroshima.

In uno dei suoi racconti più belli, I teologi, Giovanni di Pannonia arde sul rogo. Lo ha denunziato copertamente Aureliano, per anni suo rivale segreto nella dotta confutazione degli eresiarchi. Al termine della sua vita egli arderà allo stesso modo in un incendio e saprà in quel momento preciso che “agli occhi della insondabile divinità egli e Giovanni di Pannonia formavano una sola persona”. Così il gaucho argentino Isidoro Cruz si scopre una sola persona con l’eroe fuggiasco Martín Fierro che sta inseguendo attraverso un canneto, e gli balza accanto e combatte con lui. Identificazioni: e non soltanto di volti, ma di eventi: talché un fatto, rivissuto per un certo tempo dalla memoria che lo vuole redimere, si tramuta in altro fatto non meno vero del fatto reale, e ha diritto di tramutare in tal modo anche nella memoria altrui, che veramente muore e rinasce insieme con il fatto purificato e redento. È la storia di Pedro Damián (così sottilmente accesa da quella di Pier Damiani) che al momento della sua morte tutti ricordano improvvisamente come un eroe; dopo anni vissuti da lui nell’ignominia a “consumare” con la sua mente una sua antica viltà. In Ema Zunz — uno spunto che avrebbe sollecitato Maupassant — una vergine si lascia violare da uno sconosciuto per vendicare, con un delitto simulato, un antico delitto mai punito; ella non distingue, a ragione, tra i due fatti, i due eventi sono in realtà uno solo, del secondo “false soltanto le circostanze, l’ora e uno o due nomi propri”. Confluiscono cui le due tesi concentriche predilette da Borges: l’ultima identità di ogni cosa e il ciclico ritorno di ogni possibile circostanza, quale fu suggerito ciclicamente, dai pitagorici a Nietzsche.
In alcuni racconti, il centro de tali universi speculari si configura volentieri in un oggetto sacro, una sorta di siggillo di Salomone: fonte di estasi e di terrore in cui tutto l’esistente si concentra e riassume. Borges ha pochi temi e persino pochi simboli; ma sono temi e simboli polivalenti, inesauribili per la loro stessa natura: il labirinto, lo specchio, la città, il giardino, l’atlante, la scrittura. L’oggetto sacro li riassume: è la sintesi della sintesi, il concentrato, il mandala.

È la moneta Zahir — una sorta di “orso bianco” al quale non si può non pensare (ma pensarla conduce rapidamente alla follia). Sono le tigri magiche dipinte da un martire sulle pareti di una prigione “come una specie di tigre infinita fatta di molte tigri in modo vertiginoso”. Sono le macchie del giaguaro nelle quali un antico sacerdote messicano, imprigionato per la vita in una cella senza luce, decifra penosamente le parole che esprimono l’universo, le parole che “basterebbe pronunziare per essere onnipotenti” (ma, decifrate quelle parole, quale senso può avere più essere onnipotente?). O è la sacra lettra Aleph, l’alfa dell’alfabeto ebraico: un punto in cui convergono tutti i punti, dove tutto è presente simultaneamente: vita e morte, spazio e tempo, corruzione e durata, rapimento ed orrore, in una spirale di vertigine cosmica. “Per la Cabala” scrive Borges “quella lettera rappresentava l’Ensoph, l’illimitata e pura divinità; fu anche detto che essa a la figura di un uomo che indica cielo e terra per significare che il mondo inferiore è specchio e mappa del superiore; per la Mengelehre è il simbolo dei numeri transfiniti nei quali il tutto non è maggiore di alcuno dei componenti” en ancora: “Forse volle dire: non c’è fatto, per inutile che sia, che non racchiuda la soria universale e la sua infinita concatenazione di effetti e di cause; forse volle dire che il mondo visibile e intero in ogni rappresentazione, cosi comme la volontà, secondo Schopenhauer, è intera in ogni individuio”.

Tutto dunque è l’Uno. È questa la metafisica di Borges? E si può parlare, per Borges, di metafisica? Abbiamo detto come volentieri egli s’inchini al vuoto imperscrutabile, salutandolo con il nome di Dio. Potremmo dire che, con altrettanto impassibile reverenza, egli si inchini all’attimo. In una sua poesia, Dall’inferno e dal Cielo, egli afferma che il giudizio finale non decreterà gioia eterna o eterno spasimo agli eletti ed ai reprobi, ma a ciascuno lascierà in fronte, per l’eterno, il viso che la sua vita a prescelto e preservato (forse il volto dell’amore, forse quello del Tempo); e la contemplazione di quel volto sarà Inferno ai reprobi, Paradiso ai beati. È forse lecito applicare all’intera opera di Borges la sentenza di un santo: Aeternum est immediata et lucida fruitio rerum infinitarum.

Ma non si pensi che queste tragiche e iridiscenti composizioni siano un seguito di formule esoteriche. C’è in ogni storia un ammagliante storia. Ci sono i personaggi, alteramente perfidi o ciecamente sublimi disegnati a punta di diamante. E ci sono gli innumerevoli labirinti reali: Creta come Londra, Baghdad come Buenos Aires. Il miracolo di Borges narratore sta in una sorta di linguaggio innumerevole, in cui la più lampante delle figure può senza tregua fluire in mille altre, complicarse infinitamente nel tempo e nello spazio, percorrere ed animare una tastiera di correspondenze, metafore, analogie della quale non si scorgono i limiti; laddove la più pura astrazione si configura ogni volta, per magia dello stile, in un tracciato splendente e tangibile come un tappeto o un atlante.

“Descrivere con estrema precisione fisica cose fisicamente impossibili,” scrisse Hoffmannsthal “questa è la vera creazione per mezzo della parola”. Borges è forse il solo narratore vivente che sia ancora capace di una tale creazione. L’importanza del suo mondo e del suo linguaggio — all’apparenza così sdegnoso di ogni oggettiva realtà da rasentare la frigidezza del prisma — aumenta con il pauroso aumentare, su noi e su tutto quanto ci propone la letteratura, di quella stessa realtà non più mediata. Nel blocco cieco, mutilo e massiccio del secolo, Borges crea leggermente, vertiginosamente un’apertura: ci lascia intravedere ancora una volta lo sterminato mondo che sta dietro quello vero e senza il quale il mondo vero sarà presto un mondo spettrale. Il suo gesto è simmile a quello della maga persiana che gettando grani d’inceso su un braciere “apriva nel fumo con le due mani una porta” — et per essa i prigionieri passavano nei giardini e nei boschi che credevano di avere dimenticato.
Artículo de CRISTINA CAMPO publicado en Paragone - Letteratura, abril de 1960.

Una vida breve, discreta, alejada de las modas intelectuales de su tiempo, indiferente a toda vanidad literaria, tal fue la vida de Cristina Campo. Contados libros pero de una rara intensidad: ensayos, poemas y traducciones admirables.


"Scrisse poco, e vorrebbe aver scritto meno", decía de sí misma

Traducción:
En un cuento de Borges, El inmortal, se narra la historia de un misterioso anticuario, Joseph Cartaphilus de Esmirna, “un hombre consumido y terroso, de ojos grises y barba gris, de rasgos singularmente vagos, que se manejaba con fluidez [...] en diversas lenguas”. Sabemos de éste por un manuscrito que dejó tras él, la atroz y laberíntica historia de un hombre que bebe el agua de los inmortales y antes de ser Cartaphilus fue un interlocutor escocés de Vico y antes de eso un astrólogo bohemio y un escriba árabe, que a su vez había sido un centurión de Domiciano en Tebas —y antes aún una sombra desesperada y divina que se expresaba con las palabras de Homero.

Es difícil, leyendo a Borges, no confundir oscuramente a Cartaphilus con el hombre que lo creó, creer realmente en la existencia de éstos: un señor extremadamente miope de sesenta años, director de la biblioteca de Buenos Aires, animador del grupo de “Sur”; tres o cuatro veces veces rozado por aquel acontecimiento, de características cada vez más melancólicas, que es el premio Nobel de literatura. A duras penas recordamos algunas viejas fotografías suyas, que nos lo muestran un poco moreno de piel, un poco obeso, bastante más español que inglés, aunque confluyan en él estas dos sangres y además una vena portuguesa y una educación suiza. Abramos un libro suyo: El Aleph, Ficciones, Historia universal de la infamia, Historia de la eternidad, y veremos cómo Borges desaparece en sus propias palabras, se vuelve antiquísimo y ajeno a toda raza: un hombre precisamente “de rasgos singularmente vagos” hasta el que por cierto no es fácil llegar, que quizás esté lisa y llanamente muerto desde hace mucho tiempo y sólo reaparece fugazmente aquí y allá, bajo la apariencia de un hermético viajero.

Borges acaso sea el único narrador-humanista que el mundo aún posee; es el lírico de la historia, el erudito de la poesía, en cuyos textos se encuentran y se subliman, en deslumbrantes y capciosas alquimias, los secretos esplendores de todas las tradiciones, en particular, dados el nacimiento y la naturaleza de Borges, la arabo-hispánica: la platónica, por lo tanto, y la cátara, la gnóstica, la cabalística, la alquímica. Todo ello complicado por una pérfida y delicadísima red de ceremoniales ironías: el fabulista ritual se viste de inglés.

En diversas páginas Borges rindió homenaje a los autores modernos a los que “continuamente relee”: Schopenhauer, De Quincey, Stevenson y, puesto que no hay alianzas imposibles para su astral esnobismo, Chesterton, Shaw, Léon Bloy. Pero, al leer sus cuentos más puros, dos nombres muy diversos acuden súbitamente a la memoria: el Hoffmannstahl de Andreas, de la Carta de Lord Chandos a Bacon de Verulamn, y el Ernst Jünger de los Acantilados de mármol. Pero el claro fuego espiritual del primero (que sabe elevarse cada vez hasta el instante de la unio mystica) y el tenaz hielo del segundo son, por así decir, sobrepasados por Borges en un estilo de impenetrable cristal, que es el mismo cristal del mundo en el que se mueve: un mundo en todo similar a los espejos de los que está lleno, un “circular delirio” de espejos dentro de espejos; de modo que a veces estas innumerables reflexiones parecen romperse una contra la otra en un relámpago que enceguece y destruye. No queda más que el puro, el inescrutable vacío al que Borges no duda en dar el nombre de Dios, en una de sus reverencias profundas y recitadas de musulmán hacia la Meca.

Ciertamente, en cada uno de sus cuentos se repite esta mágica colisión, que en cada caso se propone volver a llevarnos a una antigua afirmación: Todo es Uno. Como en la escuela de tiro al arco zen, también aquí el tirador deberá hacerse al mismo tiempo arco, flecha y blanco, olvidar que —y porqué— está tirando al arco; y entonces ya no tendrá importancia la propia vida ni la ajena, el propio destino o el ajeno, puesto que el que dispara el arco es el Todo, como lo es el que recibe la flecha. Pero en los cuentos de Borges este descubrimiento no es el fruto impredecible y espontáneo de la larga práctica budista sino, por el contrario, una iluminación perfectamente trágica: el instante preciso que rompe todos los espejos, el blanco en el que las imágenes superpuestas se aniquilan, dejando apenas la sombra dibujada, como el hombre en el puente de Hiroshima.

En uno de sus cuentos más hermosos, Los teólogos, Juan de Panonia arde en la hoguera. Lo ha denunciado disimuladamente Aureliano, que fue por años su rival secreto en la docta refutación de los heresiarcas. Al término de su vida éste arderá del mismo modo en un incendio y sabrá en ese momento preciso que “ para la insondable divinidad él y Juan de Panonia formaban una sola persona”. Así el gaucho argentino Isidoro Cruz descubre que es una sola persona con el héroe fugitivo Martín Fierro, al que está persiguiendo por un pajonal, y se pone junto a él de un salto y combate con él. Identificaciones: y no sólo de caras sino de acontecimientos, de modo tal que un hecho que por cierto tiempo vuelve a vivir en la memoria que quiere redimirlo, se transmuta en otro hecho no menos auténtico que el hecho real y tiene derecho a transmutarse de tal modo también en la memoria ajena que realmente muere y renace junto con el hecho purificado y redimido. Es la historia de Pedro Damián (tan sutilmente suscitada por la de Pier Damiani), a quien en el momento de su muerte todos recuerdan de pronto como a un héroe; después de años vividos por él en la ignominia para “corregir” con la mente una vieja cobardía suya. En Emma Zunz —una idea que hubiera podido inspirar a Maupassant— una virgen se deja violar por un desconocido para vengar, con un delito fingido, un antiguo delito nunca castigado; no distingue, y con razón, entre los dos hechos, los dos acontecimientos son en realidad uno solo, y del segundo sólo son “falsas las circunstancias, la hora y uno o dos nombres propios”. Confluyen aquí las dos tesis concéntricas favoritas de Borges: la identidad última de toda cosa y el retorno cíclico de toda circunstancia posible, tal como cíclicamente fue sugerido, desde los pitagóricos hasta Nietzsche.

En algunos cuentos, el centro de tales universos especulares se encuentra naturalmente en un objeto sagrado, una suerte de sello de Salomón: fuente de éxtasis y de terror en la que todo lo existente se concentra y se resume. Borges tiene pocos temas y hasta pocos símbolos; pero son temas y símbolos polivalentes, inagotables por su misma naturaleza: el laberinto, el espejo, la ciudad, el jardín, el atlas, la escritura. El objeto sagrado los resume: es la síntesis de la síntesis, el concentrado, el mandala.

Es la moneda Zahir —une especie de “oso polar” en el que no se puede no pensar (pero pensar en ella conduce rápidamente a la locura). Son los tigres mágicos pintados por un mártir en las paredes de una prisión, “una especie de tigre infinito, hecho de muchos tigres de vertiginosa manera”. Son las manchas del jaguar en las que un antiguo sacerdote mexicano, encarcelado de por vida en una celda sin luz, descifra penosamente las palabras que expresan el universo, las palabras que “bastaría pronunciar para ser omnipotente” (pero, una vez descifradas esas palabras, ¿qué sentido puede tener ya ser omnipotente?). O es la sagrada letra Aleph, la letra alfa del alfabeto hebreo: un punto en el que convergen todos los puntos, donde todo está presente simultáneamente: vida y muerte, espacio y tiempo, corrupción y duración, éxtasis y horror, en una espiral de vértigo cósmico. “ Para la Cábala”, escribe Borges, “esa letra significa el En Soph, la ilimitada y pura divinidad; también se dijo que tiene la forma de un hombre que señala el cielo y la tierra, para indicar que el mundo inferior es el espejo y es el mapa del superior; para la Mengenlehre, es el símbolo de los números transfinitos, en los que el todo no es mayor que alguna de las partes”. Y también: “Tal vez quiso decir que no hay hecho, por humilde que sea, que no implique la historia universal y su infinita concatenación de efectos y causas. Tal vez quiso decir que el mundo visible se da entero en cada representación, de igual manera que la voluntad, según Schopenhauer, se da entera en cada sujeto”.

Todo, por lo tanto, es Uno. ¿Es esta la metafísica de Borges? ¿Y se puede hablar, para Borges, de metafísica? Hemos dicho cómo no duda en inclinarse sobre el vacío inescrutable, saludándolo con el nombre de Dios. Podríamos decir que, con reverencia igualmente impasible, se inclina sobre el instante. En un poema suyo, Del infierno y del cielo, afirma que el Juicio Final no decretará felicidad eterna o eterno tormento a los elegidos y a los réprobos, sino que pondrá delante de cada uno, por toda la eternidad, el rostro que su vida ha elegido y preservado (quizás el rostro del amor, quizás el del Tiempo); y la contemplación de ese rostro será Infierno para los réprobos, Paraíso para los elegidos. Quizás sea lícito aplicar a la obra entera de Borges la sentencia de un santo Aeternum est immediata et lucida fruitio rerum infinitarum.

Pero no debemos pensar que estas trágicas e iridiscentes composiciones sean una sucesión de fórmulas esotéricas. En cada historia hay una historia que recompone la unidad. Están los personajes, altivamente pérfidos o ciegamente sublimes, dibujados con una punta de diamante. Y están los innumerables laberintos reales: tanto Creta como Londres, tanto Bagdad como Buenos Aires. El milagro del Borges narrador reside en una especie de lenguaje innumerable, en el que la más perspicua de las figuras puede fluir sin pausa en otras mil, complicarse infinitamente en el tiempo y en el espacio, recorrer y animar toda una gama de correspondencias, metáforas, analogías cuyos límites no se alcanza a percibir; mientras que la más pura abstracción se materializa cada vez, por la magia del estilo, en un trazado esplendente y tangible como un tapiz o un atlas.

“Describir con extrema precisión física cosas físicamente imposibles”, escribió Hoffmannsthal, “ésa es la verdadera creación por medio de la palabra”. Borges quizás sea el único narrador vivo que aún es capaz de crear de ese modo. La importancia de su mundo y de su lenguaje —aparentemente tan desdeñoso de toda realidad objetiva que roza la frigidez del prisma— aumenta con el pavoroso aumento, en nosotros y en todo lo que nos propone la literatura, de esa misma realidad ya no mediata. En el bloque ciego, mutilado y macizo del siglo, Borges hace ligeramente, vertiginosamente una abertura: nos deja entrever una vez más el exterminado mundo que está detrás del verdadero y sin el cual el mundo verdadero será pronto un mundo espectral. Su gesto es semejante al de la maga persa que, echando granos de incienso en un brasero, “abría con ambas manos una puerta en el humo” —y por ella pasaban los prisioneros a los jardines y a los bosques que creían haber olvidado.
Fuente: http://literaturafrancesatraducciones.blogspot.com/2010/03/borges-por-cristina-campo.html    
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Se viene el Festival Solidario: desde Esquel para Chile

Numerosos artistas locales, de la región y también de Chile, se darán cita el próximo 17 de abril en el Gimnasio Municipal de Esquel, donde se llevará a cabo un Festival Solidario para los pueblos afectados por los sismos en el hermano país.


La iniciativa surgió desde el Grupo de Residentes Chilenos en Esquel, y cuenta con el apoyo del Consulado Honorario de ese país en esta ciudad, así como con el auspicio de la Subsecretaría y Educación de la Municipalidad de Esquel.
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Aprendé a bailar tango en los TAMFI

ABIERTA LA INSCRIPCIÓN A LOS
Talleres Municipales de Formación Integral 2010 (TAMFI)

TANGO ADOLESCENTES Y JÓVENES

PRIMER ENCUENTRO: MIÉRCOLES 21 DE ABRIL 18 HS EN
Sede vecinal, GRUPO JOVEN CEFERINO NAMUNCURÁ
(Calle Carlos Gardel y Hna. Ma. Mercedes. continuación de 25 de Mayo, arriba)

TANGO ADULTOS. REUNIÓN INFORMATIVA:
MIÉRCOLES 31 DE MARZO 18 HS EN
Sede vecinal BARRIO JORGE NEWBERY
(Calle O' Higgins y Av. Holdich)

No es necesario tener conocimientos previos, ya que ambos, son talleres de INICIACIÓN.
Por cualquier duda o consulta podés comunicarte al tel 45 1929.

Los días y horarios definitivos en los que funcionarán los talleres, se acordarán con los interesados, por esto, si no podés asistir al primer encuentro, comunicate y, tendremos en cuenta tu disponibilidad horaria.

La inscripción se realizará en las Sedes Vecinales y en las oficinas del Área de Gestión Educativa de la Subsecretaría de Cultura y Educación, ubicada en Belgrano 330.
La participación en los talleres es abierta y gratuita.

Quien no baila desconoce el secreto de la vida....
Los espero!!
Cecilia Loffredo
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Aleman Grup en Killarney's


El Aleman Grup llega cargado de 25 años de hacer música y ser reconocidos como uno de los mejores grupos del rock nacional under, compartiendo escenarios con los mejores músicos (Los Tipitos, La 25, Los Ratones, etc) y siendo considerandos como los poetas del Rockanroll por el compromiso de sus letras y la fuerza de sus temas (más de 200) de su propia autoría.

El Aleman Grup presenta “Extranjeros” este Jueves a las 23.30 en Killarney´s.
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Carlos Carranza, de Córdoba a Esquel - Blues

Carlos Carranza, músico cordobés,
se presenta el 2 y 3 de abril, pasada la medianoche
en El Bodegón resto pub de Esquel.
El guitarrista estará acompañado por Damián Duflos
y los locales de “The Bodegón Blues Band”.

La entrada general tiene un costo de diez pesos.

Carranza tuvo sus primeras incursiones en el rock con la banda de metal “Hammer” entre los años 1987 y 1991 en batería. “Fe Ciega” ya lo vio como guitarrista del ‘92 al ‘94.
Su relación con el blues comenzó en el año ‘94 integrando el dúo acústico “Blue Devils”. Experiencia que duró hasta el ‘95.
En 1996 formó “La Vagabunda”, con la cual giró por el país como banda de acompañamiento de Botafogo. Presentándose en festivales de Blues y Jazz junto a La Mississippi, Bruce Ewan, etc.
“Los Búfalos Sedientos” contaron con su aporte en guitarra desde 1997.
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Relación entre las represas, la minería y los terremotos

Minería y cambio climático

Una nota en No a la Mina que reproducimos en:

http://otrogenesisposible.blogspot.com/2010/03/represas-mineria-mas-terremotos.html
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Sesionó en Esquel el Encuentro de la UAC

RENACE INFORMA
RED NACIONAL
DE ACCION ECOLOGISTA
de la Argentina

29 de marzo 2010




EL XII ENCUENTRO DE LA UNIÓN DE ASAMBLEAS CIUDADANAS (UAC) SESIONÓ EN ESQUEL CON IMPORTANTE REPRESENTACIÓN DE PATAGÓNICOS Y COMUNIDADES ORIGINARIAS.

Representantes de asambleas y foros de la region patagónica fueron mayoría durante las deliberaciones realizadas en Esquel, los tres dias que duro la UAC (Unión de Asambleas Ciudadanas). Las asambleas del noroeste argentino que componen este movimiento social enviaron su adhesión y compromiso de concurrir en el próximo encuentro programado para el mes de julio en Santiago del Estero. El norte priorizo su participación en el alerta que produjeron los hechos posteriores a la pueblada de Andalgalá y la distancia impidió la concurrencia de los colectivos contra la megaminería, que se hallan mas alejados.

En la UAC de Esquel se fortaleció la organización a través de comisiones como las de legales, prensa, formación, educación, etc. Se definió el rol que le cabe a la comisión de legales y la independencia del REDAJ (red de asistencia jurídica) que nació como expresión de la UAC pero que en la práctica debe actuar en tiempo real ante la judicialización y persecución de las comunidades movilizadas y reprimidas como es de público conocimiento.

Las primeras discusiones se centraron en la horizontalidad de la UAC, la reafirmación asambleísta y la pluralidad política al margen de los partidos y agrupaciones de cualquier signo, todos inhabilitados para actuar en el seno de la UAC, posición adoptada desde sus orígenes.

Se decidió la producción de cuadernillos que divulguen la razón de existencia de la UAC, debido fundamentalmente a la masiva incorporación de nuevos colectivos y asambleístas patagónicos que requerían mayor información.

En la UAC de Esquel se brindó mayor espacio a los debates plenarios, que produjeron firmes intercambios y conclusiones rápidas Divididos en seis grupos por razones prácticas, los asambleístas debatieron antes las necesidades de todas las regiones del país, Litoral, Noroeste, Cuyo, Centro y Patagonia y el avance de las corporaciones transnacionales. Se destacó el intento de los gobiernos, nacional y provinciales, de crear las llamadas “zonas de sacrificio”, sitios destinados al saqueo ilimitado, en principio lejos de la cordillera andina. La oposición patagónica a la destrucción de la meseta con proyectos como el de Navidad y el uranífero de Cerro Solo concitó la decisión de unir todos los esfuerzos para impedirlos. Asimismo se determinó que toda la región patagónica debe rechazar los proyectos de especulación inmobiliaria y los fastuosos emprendimientos que darán cuenta de la masa boscosa nativa y de su biodiversidad. Quedó claro que habrá que impedir que continúen los proyectos de la Iniciativa de Infraestructura Regional Sudamericana (IIRSA) cuyo objetivo es facilitar el saqueo de los bienes comunes (recursos naturales) a cualquier costo. En este sentido, los patagónicos decidieron concentrar fuerzas en el Tratado Binacional Minero de Implementacion Conjunta Argentino Chileno, en inmediaciones de la Comarca Andina y norte de Santa Cruz, réplica del que se desarrolla en la provincia de San Juan (Pascua-Lama) y unir en consecuencia el activismo de los foros de Comodoro Rivadavia, Trelew y Puerto Madryn.


La UAC de Esquel invitó a profundizar el activismo contra los agronegocios, la sojización de nuestros países, las mega-represas para el saqueo, como así también exigir la realización de investigaciones sanitarias debido a los impactos ambientales ya generados y continuar con énfasis mediante las movilizaciones “Paren de Fumigar”.

En la UAC se rechazó la mediatización circense de la cumbre de Copenhague sobre Cambio Climático, a la vez que no hubo consenso para adherir al encuentro de Cochabamba del mes de abril, Día de la Tierra; la discusión se centró sobre este aspecto y el de asistir al encuentro llevando el mensaje de la problemática que precisamente se discute en la UAC. Muchos asambleístas asistirán al encuentro boliviano por sus fueros, sin la representación de este colectivo.

El apoyo al pueblo de Andalgalá acaparó gran parte de las deliberaciones, y hubo innumerables propuestas de acciones consensuadas que se difundirán oportunamente. Quedó claro también que el disfraz minero de eludir las leyes conseguidas en las distintas provincias que prohíben la megamineria hidroquimica metalifera a cielo abierto, mediante métodos igualmente contaminantes como el de flotación, serán combativo por todas las comunidades afectadas.

En días más, la UAC de Esquel difundirá detalladamente todos los temas tratados, que incluyen aquellos que forman parte histórica de esta asamblea, los movimientos sociales que participaron, como los de Córdoba, Mendoza y Buenos Aires que se sumaron a las asambleas patagónicas. La Asamblea Ambiental de Gualeguaychú expuso en la UAC de Esquel la firme decisión de mantenerse al margen del arbitraje de la Corte de La Haya, porque cualquiera sea la decisión de este tribunal internacional, Gualeguaychú no bajará los brazos hasta expulsar a la planta de celulosa Botnia de sus aguas.

Prensa UAC
011 1567485340
02945 15696341
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Acerca de mis cuentos, por Jorge Luis Borges

Acaban de informarme que voy a hablar sobre mis cuentos. Ustedes quizás los conozcan mejor que yo, ya que yo los he escrito una vez y he tratado de olvidarlos, para no desanimarme he pasado a otros; en cambio tal vez alguno de ustedes haya leído algún cuento mío, digamos, un par de veces, cosa que no me ha ocurrido a mí. Pero creo que podemos hablar sobre mis cuentos, si les parece que merecen atención. Voy a tratar de recordar alguno y luego me gustaría conversar con ustedes que, posiblemente, o sin posiblemente, sin adverbio, pueden enseñarme muchas cosas, ya que yo no creo, contrariamente a la teoría de Edgar Allan Poe, que el arte, la operación de escribir, sea una operación intelectual. Yo creo que es mejor que el escritor intervenga lo menos posible en su obra. Esto puede parecer asombroso; sin embargo, no lo es, en todo caso se trata curiosamente de la doctrina clásica.

Lo vemos en la primera línea -yo no sé griego- de la Iliada de Homero, que leemos en la versión tan censurada de Hermosilla: "Canta, Musa, la cólera de Aquiles". Es decir, Homero, o los griegos que llamamos Homero, sabía, sabían, que el poeta no es el cantor, que el poeta (el prosista, da lo mismo) es simplemente el amanuense de algo que ignora y que en su mitología se llamaba la Musa. En cambio los hebreos prefirieron hablar del espíritu, y nuestra psicología contemporánea, que no adolece de excesiva belleza, de la subconsciencia, el inconsciente colectivo, o algo así. Pero en fin, lo importante es el hecho de que el escritor es un amanuense, él recibe algo y trata de comunicarlo, lo que recibe no son exactamente ciertas palabras en un cierto orden, como querían los hebreos, que pensaban que cada sílaba del texto había sido prefijada. No, nosotros creemos en algo mucho más vago que eso, pero en cualquier caso en recibir algo.
El Zahir 
Voy a tratar entonces de recordar un cuento mío. Estaba dudando mientras me traían y me acordé de un cuento que no sé si ustedes han leído; se llama El Zahir. Voy a recordar cómo llegué yo a la concepción de ese cuento. Uso la palabra «cuento» entre comillas ya que no sé si lo es o qué es, pero, en fin, el tema de los géneros es lo de menos. Croce creía que no hay géneros; yo creo que sí, que los hay en el sentido de que hay una expectativa en el lector. Si una persona lee un cuento, lo lee de un modo distinto de su modo de leer cuando busca un artículo en una enciclopedia o cuando lee una novela, o cuando lee un poema. Los textos pueden no ser distintos pero cambian según el lector, según la expectativa. Quien lee un cuento sabe o espera leer algo que lo distraiga de su vida cotidiana, que lo haga entrar en un mundo no diré fantástico -muy ambiciosa es la palabra- pero sí ligeramente distinto del mundo de las experiencias comunes.

Ahora llego a El Zahir y, ya que estamos entre amigos, voy a contarles cómo se me ocurrió ese cuento. No recuerdo la fecha en la que escribí ese cuento, sé que yo era director de la Biblioteca Nacional, que está situada en el Sur de Buenos Aires, cerca de la iglesia de La Concepción; conozco bien ese barrio. Mi punto de partida fue una palabra, una palabra que usamos casi todos los días sin darnos cuenta de lo misterioso que hay en ella (salvo que todas las palabras son misteriosas): pensé en la palabra inolvidable, unforgetable en inglés. Me detuve, no sé por qué, ya que había oído esa palabra miles de veces, casi no pasa un día en que no la oiga; pensé qué raro sería si hubiera algo que realmente no pudiéramos olvidar. Qué raro sería si hubiera, en lo que llamamos realidad, una cosa, un objeto -¿por qué, no?- que fuera realmente inolvidable.

Ese fue mi punto de partida, bastante abstracto y pobre; pensar en el posible sentido de esa palabra oída, leída, literalmente in-olvidable, inolvidable, unforgetable, unvergasselich, inouviable. Es una consideración bastante pobre, como ustedes han visto. Enseguida pensé que si hay algo inolvidable, ese algo debe ser común, ya que si tuviéramos una quimera por ejemplo, un monstruo con tres cabezas, (una cabeza creo que de cabra, otra de serpiente, otra creo que de perro, no estoy seguro), lo recordaríamos ciertamente. De modo que no habría ninguna gracia en un cuento con un minotauro, con una quimera, con un unicornio inolvidable; no, tenía que ser algo muy común. Al pensar en ese algo común pensé, creo que inmediatamente, en una moneda, ya que se acuñan miles y miles y miles de monedas todas exactamente iguales. Todas con la efigie de la libertad, o con un escudo o con ciertas palabras convencionales. Qué raro sería si hubiera una moneda, una moneda perdida entre esos millones de monedas, que fuera inolvidable. Y pensé en una moneda que ahora ha desaparecido, una moneda de veinte centavos, una moneda igual a las otras, igual a la moneda de cinco o a la de diez, un poco más grande; qué raro si entre los millones, literalmente, de monedas acuñadas por el Estado, por uno de los centenares de Estados, hubiera una que fuera inolvidable. De ahí surgió la idea: una inolvidable moneda de veinte centavos. No sé si existen aún, si los numismáticos las coleccionan, si tienen algún valor, pero en fin, no pensé en eso en aquel tiempo. Pensé en una moneda que para los fines de mi cuento tenía que ser inolvidable; es decir: una persona que la viera no podría pensar en otra cosa.

Luego me encontré ante la segunda o tercera dificultad... he perdido la cuenta. ¿Por qué esa moneda iba a ser inolvidable? El lector no acepta la idea, yo tenía que preparar la inolvidabilidad de mi moneda y para eso convenía suponer un estado emocional en quien la ve, había que insinuar la locura, ya que el tema de mi cuento es un tema que se parece a la locura o a la obsesión. Entonces pensé, como pensó Edgar Allan Poe cuando escribió su justamente famoso poema El Cuervo, en la muerte hermosa. Poe se preguntó a quién podía impresionar la muerte de esa mujer, y dedujo que tenía que impresionarle a alguien que estuviese enamorado de ella. De ahí llegué a la idea de una mujer, de quien yo estoy enamorado, que muere, y yo estoy desesperado
Una mujer poco memorable

En ese punto hubiera sido fácil, quizás demasiado fácil, que esa mujer fuera como la perdida Leonor de Poe. Pero no decidí mostrar a esa mujer de un modo satírico, mostrar el amor de quien no olvidará la moneda de veinte centavos como un poco ridículo; todos los amores lo son para quien los ve desde afuera.

Entonces, en lugar de hablar de la belleza del love splendor, la convertí en una mujer bastante trivial, un poco ridícula, venida a menos, tampoco demasiado linda. Imaginé esa situación que se da muchas veces: un hombre enamorado de una mujer, que sabe por un lado que no puede vivir sin ella y al mismo tiempo sabe que esa mujer no es especialmente memorable, digamos, para su madre, para sus primas, para la mucama, para la costurera, para las amigas; sin embargo, para él, esa persona es única.

Eso me lleva a otra idea, la idea de que quizás toda persona sea única, y que nosotros no veamos lo único de esa persona que habla en favor de ella. Yo he pensado alguna vez que esto se da en todo, si no fijémonos que en la Naturaleza, o en Dios (Deus sirve Natura, decía Spinoza) lo importante es la cantidad y no la calidad. Por qué no suponer entonces que hay algo, no sólo en cada ser humano sino en cada hoja, en cada hormiga, único, que por eso Dios o la Naturaleza crea millones de hormigas; aunque decir millones de hormigas es falso, no hay millones de hormigas, hay millones de seres muy diferentes, pero la diferencia es tan sutil que nosotros los vemos como iguales.

Entonces, ¿qué es estar enamorado? Estar enamorado es percibir lo que de único hay en cada persona, eso único que no puede comunicarse salvo por medio de hipérboles o de metáforas. Entonces por qué no suponer que esa mujer, un poco ridícula para todos, poco ridícula para quien está enamorado de ella, esa mujer muere. Y luego tenemos el velorio. Yo elegí el lugar del velorio, elegí la esquina, pensé en la Iglesia de la Concepción, una iglesia no demasiado famosa ni demasiado patética, y luego al hombre que después del velorio va a tomar un guindado a un almacén. Paga, en el cambio le dan una moneda y él distingue en seguida que hay algo en ella -hice que fuera rayada para distinguirla de las otras. Él ve la moneda, está muy emocionado por la muerte de la mujer, pero al verla ya empieza a olvidarse de ella, empieza a pensar en la moneda. Ya tenemos el objeto mágico para el cuento. Luego vienen los subterfugios del narrador para librarse de esa que él sabe que es una obsesión. Hay diversos subterfugios: uno de ellos es perder la moneda. La lleva, entonces, a otro almacén que queda un poco lejos, la entrega en el cambio, trata de no fijarse en qué esquina está ese almacén, pero eso no sirve para nada porque él sigue pensando en la moneda.

Luego llega a extremos un poco absurdos. Por ejemplo, compra una libra esterlina con San Jorge y el dragón, la examina con una lupa, trata de pensar en ella y olvidarse de la moneda de veinte centavos ya perdida para siempre, pero no logra hacerlo. Hacia el final del cuento el hombre va enloqueciendo pero piensa que esa misma obsesión puede salvarlo. Es decir, habrá un momento en el cual el universo habrá desaparecido, el universo será esa moneda de veinte centavos. Entonces él -aquí produje un pequeño efecto literario- él, Borges, estará loco, no sabrá que es Borges. Ya no será otra cosa que el espectador de esa perdida moneda inolvidable. Y concluí con esta frase debidamente literaria, es decir, falsa: "Quizás detrás de la moneda esté Dios". Es decir, si uno ve una sola cosa, esa cosa única es absoluta. Hay otros episodios que he olvidado, quizás alguno de ustedes los recuerde. Al final, él no puede dormir, sueña con la moneda, no puede leer, la moneda se interpone entre el texto y él casi no puede hablar sino de un modo mecánico, porque realmente está pensando en la moneda, así concluye el cuento

El libro de arena
Bien, ese cuento pertenece a una serie de cuentos, en la que hay objetos mágicos que parecen preciosos al principio y luego son maldiciones, sucede que están cargados de horror. Recuerdo otro cuento que esencialmente es el mismo y que está en mi mejor libro, si es que yo puedo hablar de mejores libros, El libro de arena. Ya el título es mejor que El Zahir, creo que zahir quiere decir algo así como maravilloso, excepcional. En este caso, pensé antes que nada en el título: El libro de arena, un libro imposible, ya que no puede haber libros de arena, se disgregarían. Lo llamé El libro de arena porque consta de un número infinito de páginas. El libro tiene el número de la arena, o más que el presumible número de la arena. Un hombre adquiere ese libro y, como tiene un número infinito de páginas, no puede abrirse dos veces en la misma.

Este libro podría haber sido un gran libro, de aspecto ilustre; pero la misma idea que me llevó a una moneda de veinte centavos en el primer cuento, me condujo a un libro mal impreso, con torpes ilustraciones y escrito en un idioma desconocido. Necesitaba eso para el prestigio del libro, y lo llamé Holy Writ -escritura sagrada-, la escritura sagrada de una religión desconocida. El hombre lo adquiere, piensa que tiene un libro único, pero luego advierte lo terrible de un libro sin primera página (ya que si hubiera una primera página habría una última). En cualquier parte en la que él abra el libro, habrá siempre algunas páginas entre aquélla en la que él abre y la tapa. El libro no tiene nada de particular, pero acaba por infundirle horror y él opta por perderlo y lo hace en la Biblioteca Nacional. Elegí ese lugar en especial porque conozco bien la Biblioteca.

Así, tenemos el mismo argumento: un objeto mágico que realmente encierra horror.

Pero antes yo había escrito otro cuento titulado "Tlön, Uqbar, Orbis Tertius". Tlön, no se sabe a qué idioma corresponde. Posiblemente a una lengua germánica. Uqbar surgiere algo arábigo, algo asiático. Y luego, dos palabras claramente latinas: Orbis Tertius, mundo tercero. La idea era distinta, la idea es la de un libro que modifique el mundo.

Yo he sido siempre lector de enciclopedias, creo que es uno de los géneros literarios que prefiero porque de algún modo ofrece todo de manera sorprendente. Recuerdo que solía concurrir a la Biblioteca Nacional con mi padre; yo era demasiado tímido para pedir un libro, entonces sacaba un volumen de los anaqueles, lo abría y leía. Encontré una vieja edición de la Enciclopedia Británica, una edición muy superior a las actuales ya que estaba concebida como libro de lectura y no de consulta, era una serie de largas monografías. Recuerdo una noche especialmente afortunada en la que busqué el volumen que corresponde a la D-L, y leí un artículo sobre los druidas, antiguos sacerdotes de los celtas, que creían -según César- en la transmigración (puede haber un error de parte de César). Leí otro artículo sobre los Drusos del Asia Menor, que también creen en la transmigración. Luego pensé en un rasgo no indigno de Kafka: Dios sabe que esos Drusos son muy pocos, que los asedian sus vecinos, pero al mismo tiempo creen que hay una vasta población de Drusos en la China y creen, como los Druidas, en la transmigración. Eso lo encontré en aquella edición, creo que el año 1910, y luego en la de 1911 no encontré ese párrafo, que posiblemente soñé; aunque creo recordar aún la frase Chinese druses -Drusos Chinos- y un artículo sobre Dryden, que habla de toda la triste variedad del infierno, sobre el cual ha escrito un excelente libro el poeta Eliot; eso me fue dado en una noche.

Y como siempre he sido lector de enciclopedias, reflexioné -esa reflexión es trivial también, pero no importa, para mí fue inspiradora- que las enciclopedias que yo había leído se refieren a nuestro planeta, a los otros, a los diversos idiomas, a sus diversas literaturas, a las diversas filosofías, a los diversos hechos que configuran lo que se llama el mundo físico. ¿Por qué no suponer una enciclopedia de un mundo imaginario?

Una enciclopedia imaginaria

Esa enciclopedia tendría el rigor que no tiene lo que llamamos realidad. Dijo Chesterton que es natural que lo real sea más extraño que lo imaginado, ya que lo imaginado procede de nosotros, mientras que lo real procede de una imaginación infinita, la de Dios. Bueno, vamos a suponer la enciclopedia de un mundo imaginario. Ese mundo imaginario, su historia, sus matemáticas, sus religiones, las herejías de esas religiones, sus lenguas, las gramáticas y filosofías de esas lenguas, todo, todo eso va a ser más ordenado, es decir, más aceptable para la imaginación que el mundo real en el que estamos tan perdidos, del que podemos pensar que es un laberinto, un caos. Podemos imaginar, entonces, la enciclopedia de ese mundo, o esos tres mundos que se llaman, en tres etapas sucesivas, Tlön, Uqbar, Orbis Tertius. No sé cuántos ejemplares eran, digamos treinta ejemplares de ese volumen que, leído y releído, acaba por suplantar la realidad; ya que la historia que narra es más aceptable que la historia real que no entendemos, su filosofía corresponde a la filosofía que podemos admitir fácilmente y comprender: el idealismo de Hume, de los hindúes, de Schopenhauer, de Berkley, de Spinoza. Supongamos que esa enciclopedia funde el mundo cotidiano y lo reemplaza. Entonces, una vez escrito el cuento, aquella misma idea de un objeto mágico que modifica la realidad lleva a una especie de locura; una vez escrito el cuento pensé: "¿qué es lo que realmente ha ocurrido?" Ya que, qué sería del mundo actual sin los diversos libros sagrados, sin los diversos libros de filosofía. Ese fue uno de los primeros cuentos que escribí. Ustedes observarán que esos tres cuentos de apariencia tan distinta, "Tlön, Uqbar; Orbis Tertius", "El Zahir" y "El libro de arena", son esencialmente el mismo: un objeto mágico intercalado en lo que se llama mundo real. Quizás piensen que yo haya elegido mal, quizás haya otros que les interesen más. Veamos por lo tanto otro cuento:

"Utopía de un hombre que está cansado". Esa utopía de un hombre que está cansado es realmente mi utopía. Creo que adolecemos de muchos errores: uno de ellos es la fama. No hay ninguna razón para que un hombre sea famoso. Para ese cuento yo imagino una longevidad muy superior a la actual. Bernard Shaw creía que convendría vivir 300 años para llegar a ser adulto. Quizás la cifra sea escasa; no recuerdo cuál he fijado en ese cuento: lo escribí hace muchos años. Supongo primero un mundo que no esté parcelado en naciones como ahora, un mundo que haya llegado a un idioma común . Vacilé entre el esperanto u otro idioma neutral y luego pensé en el latín. Todos sentíamos la nostalgia del latín, las perdidas declinaciones, la brevedad del latín. Me acuerdo de una frase muy linda de Browning que habla de ello: «Latin, marble's languaje» -latín, idioma del mármol. Lo que se dice en latín parece, efectivamente, grabado en el mármol de un modo bastante lapidario. Pensé en un hombre que vive mucho tiempo, que llega a saber todo lo que quiere saber, que ha descubierto su especialidad y se dedica a ella, que sabe que los hombres y mujeres en su vida pueden ser innumerables, pero se retira a la soledad. Se dedica a su arte, que puede ser la ciencia o cualquiera de las artes actuales. En el cuento se trata de un pintor. Él vive solitariamente, pinta, sabe que es absurdo dejar una obra de arte a la realidad, ya que no hay ninguna razón para que cada uno sea su propio Velásquez, su propio Shakespeare, su propio Shopenhauer. Entonces llega un momento en el que desea destruir todo lo que ha hecho. Él no tiene nombre: los nombres sirven para distinguir a unos hombres de otros, pero él vive solo. Llega un momento en que cree que es conveniente morir. Se dirige a un pequeño establecimiento donde se administra el suicidio y quema toda su obra. No hay razón para que el pasado nos abrume, ya que cada uno puede y debe bastarse. Para que ese cuento fuese contado hacía falta una persona del presente; esa persona es el narrador. El hombre aquél le regala uno de sus cuadros al narrador, quien regresa al tiempo actual (creo que es contemporáneo nuestro). Aquí recordé dos hermosas fantasías, una de Wells y otra de Coleridge. La de Wells está en el cuento titulado "The Time Machine" -"La máquina del tiempo"-, donde el narrador viaja a un porvenir muy remoto, y de ese porvenir trae una flor, una flor marchita; al regresar él esa flor no ha florecido aún . La otra es una frase, una sentencia perdida de Coleridge que está en sus cuadernos, que no se publicaron nunca hasta después de su muerte y dice simplemente: "Si alguien atravesara el paraíso y le dieran como prueba de su pasaje por el paraíso una flor y se despertara con esa flor en la mano, entonces, ¿qué?"

Eso es todo, yo concluí de ese modo: el hombre vuelve al presente y trae consigo un cuadro del porvenir, un cuadro que no ha sido pintado aún. Ese cuento es un cuento triste, como lo indica su título: Utopía de un hombre que está cansado


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Cuento:Pierre Menard, autor del Quijote, por Jorge Luis Borges

A Silvina Ocampo

Pierre Menard, autor del Quijote, cuento. El jardín de senderos que se bifurcan (1941; Ficciones, 1944)




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La obra visible que ha dejado este novelista es de fácil y breve enumeración. Son, por lo tanto, imperdonables las omisiones y adiciones perpetradas por madame Henri Bachelier en un catálogo falaz que cierto diario cuya tendencia protestante no es un secreto ha tenido la desconsideración de inferir a sus deplorables lectores -si bien estos son pocos y calvinistas, cuando no masones y circuncisos. Los amigos auténticos de Menard han visto con alarma ese catálogo y aun con cierta tristeza. Diríase que ayer nos reunimos ante el mármol final y entre los cipreses infaustos y ya el Error trata de empañar su Memoria... Decididamente, una breve rectificación es inevitable.

Me consta que es muy fácil recusar mi pobre autoridad. Espero, sin embargo, que no me prohibirán mencionar dos altos testimonios. La baronesa de Bacourt (en cuyos vendredis inolvidables tuve el honor de conocer al llorado poeta) ha tenido a bien aprobar las líneas que siguen. La condesa de Bagnoregio, uno de los espíritus más finos del principado de Mónaco (y ahora de Pittsburgh, Pennsylvania, después de su reciente boda con el filántropo internacional Simón Kautzsch, tan calumniado, ¡ay!, por las víctimas de sus desinteresadas maniobras) ha sacrificado “a la veracidad y a la muerte” (tales son sus palabras) la señoril reserva que la distingue y en una carta abierta publicada en la revista Luxe me concede asimismo su beneplácito. Esas ejecutorias, creo, no son insuficientes.

He dicho que la obra visible de Menard es fácilmente enumerable. Examinado con esmero su archivo particular, he verificado que consta de las piezas que siguen:

a) Un soneto simbolista que apareció dos veces (con variaciones) en la revista La Conque (números de marzo y octubre de 1899).

b) Una monografía sobre la posibilidad de construir un vocabulario poético de conceptos que no fueran sinónimos o perífrasis de los que informan el lenguaje común, “sino objetos ideales creados por una convención y esencialmente destinados a las necesidades poéticas” (Nîmes, 1901).

c) Una monografía sobre “ciertas conexiones o afinidades” del pensamiento de Descartes, de Leibniz y de John Wilkins (Nîmes, 1903).

d) Una monografía sobre la Characteristica Universalis de Leibniz (Nîmes, 1904).

e) Un artículo técnico sobre la posibilidad de enriquecer el ajedrez eliminando uno de los peones de torre. Menard propone, recomienda, discute y acaba por rechazar esa innovación.

f) Una monografía sobre el Ars Magna Generalis de Ramón Llull (Nîmes, 1906).

g) Una traducción con prólogo y notas del Libro de la invención liberal y arte del juego del axedrez de Ruy López de Segura (París, 1907).

h) Los borradores de una monografía sobre la lógica simbólica de George Boole.

i) Un examen de las leyes métricas esenciales de la prosa francesa, ilustrado con ejemplos de Saint­Simon (Revue des Langues Romanes, Montpellier, octubre de 1909).

j) Una réplica a Luc Durtain (que había negado la existencia de tales leyes) ilustrada con ejemplos de Luc Durtain (Revue des Langues Romanes, Montpellier, diciembre de 1909).

k) Una traducción manuscrita de la Aguja de navegar cultos de Quevedo, intitulada La Boussole des précieux.

l) Un prefacio al catálogo de la exposición de litografías de Carolus Hourcade (Nîmes, 1914).

m) La obra Les Problèmes d'un problème (París, 1917) que discute en orden cronológico las soluciones del ilustre problema de Aquiles y la tortuga. Dos ediciones de este libro han aparecido hasta ahora; la segunda trae como epígrafe el consejo de Leibniz Ne craignez point, monsieur, la tortue, y renueva los capítulos dedicados a Russell y a Descartes.

n) Un obstinado análisis de las “costumbres sintácticas” de Toulet (N.R.F., marzo de 1921). Menard ­recuerdo­ declaraba que censurar y alabar son operaciones sentimentales que nada tienen que ver con la crítica.

o) Una transposición en alejandrinos del Cimetière marin, de Paul Valéry (N.R.F., enero de 1928).

p) Una invectiva contra Paul Valéry, en las Hojas para la supresión de la realidad de Jacques Reboul. (Esa invectiva, dicho sea entre paréntesis, es el reverso exacto de su verdadera opinión sobre Valéry. Éste así lo entendió y la amistad antigua de los dos no corrió peligro.)

q) Una “definición” de la condesa de Bagnoregio, en el “victorioso volumen” ­la locución es de otro colaborador, Gabriele d'Annunzio­ que anualmente publica esta dama para rectificar los inevitables falseos del periodismo y presentar “al mundo y a Italia” una auténtica efigie de su persona, tan expuesta (en razón misma de su belleza y de su actuación) a interpretaciones erróneas o apresuradas.

r) Un ciclo de admirables sonetos para la baronesa de Bacourt (1934).

s) Una lista manuscrita de versos que deben su eficacia a la puntuación.[1]

Hasta aquí (sin otra omisión que unos vagos sonetos circunstanciales para el hospitalario, o ávido, álbum de madame Henri Bachelier) la obra visible de Menard, en su orden cronológico. Paso ahora a la otra: la subterránea, la interminablemente heroica, la impar. También, ¡ay de las posibilidades del hombre!, la inconclusa. Esa obra, tal vez la más significativa de nuestro tiempo, consta de los capítulos noveno y trigésimo octavo de la primera parte del Don Quijote y de un fragmento del capítulo veintidós. Yo sé que tal afirmación parece un dislate; justificar ese “dislate” es el objeto primordial de esta nota.[2]

Dos textos de valor desigual inspiraron la empresa. Uno es aquel fragmento filológico de Novalis -­el que lleva el número 2005 en la edición de Dresden­- que esboza el tema de la total identificación con un autor determinado. Otro es uno de esos libros parasitarios que sitúan a Cristo en un bulevar, a Hamlet en la Cannebiére o a don Quijote en Wall Street. Como todo hombre de buen gusto, Menard abominaba de esos carnavales inútiles, sólo aptos ­decía­ para ocasionar el plebeyo placer del anacronismo o (lo que es peor) para embelesarnos con la idea primaria de que todas las épocas son iguales o de que son distintas. Más interesante, aunque de ejecución contradictoria y superficial, le parecía el famoso propósito de Daudet: conjugar en una figura, que es Tartarín, al Ingenioso Hidalgo y a su escudero... Quienes han insinuado que Menard dedicó su vida a escribir un Quijote contemporáneo, calumnian su clara memoria.

No quería componer otro Quijote -lo cual es fácil- sino el Quijote. Inútil agregar que no encaró nunca una transcripción mecánica del original; no se proponía copiarlo. Su admirable ambición era producir unas páginas que coincidieran ­palabra por palabra y línea por línea­ con las de Miguel de Cervantes.

“Mi propósito es meramente asombroso”, me escribió el 30 de septiembre de 1934 desde Bayonne. “El término final de una demostración teológica o metafísica -el mundo externo, Dios, la causalidad, las formas universales- no es menos anterior y común que mi divulgada novela. La sola diferencia es que los filósofos publican en agradables volúmenes las etapas intermediarias de su labor y que yo he resuelto perderlas.” En efecto, no queda un solo borrador que atestigüe ese trabajo de años.

El método inicial que imaginó era relativamente sencillo. Conocer bien el español, recuperar la fe católica, guerrear contra los moros o contra el turco, olvidar la historia de Europa entre los años de 1602 y de 1918, ser Miguel de Cervantes. Pierre Menard estudió ese procedimiento (sé que logró un manejo bastante fiel del español del siglo diecisiete) pero lo descartó por fácil. ¡Más bien por imposible! dirá el lector. De acuerdo, pero la empresa era de antemano imposible y de todos los medios imposibles para llevarla a término, éste era el menos interesante. Ser en el siglo veinte un novelista popular del siglo diecisiete le pareció una disminución. Ser, de alguna manera, Cervantes y llegar al Quijote le pareció menos arduo ­por -consiguiente, menos interesante- que seguir siendo Pierre Menard y llegar al Quijote, a través de las experiencias de Pierre Menard. (Esa convicción, dicho sea de paso, le hizo excluir el prólogo autobiográfico de la segunda parte del Don Quijote. Incluir ese prólogo hubiera sido crear otro personaje -Cervantes- pero también hubiera significado presentar el Quijote en función de ese personaje y no de Menard. Éste, naturalmente, se negó a esa facilidad.) “Mi empresa no es difícil, esencialmente” leo en otro lugar de la carta. “Me bastaría ser inmortal para llevarla a cabo.” ¿Confesaré que suelo imaginar que la terminó y que leo el Quijote -todo el Quijote- como si lo hubiera pensado Menard? Noches pasadas, al hojear el capítulo xxvi -no ensayado nunca por él- reconocí el estilo de nuestro amigo y como su voz en esta frase excepcional: las ninfas de los ríos, la dolorosa y húmida Eco. Esa conjunción eficaz de un adjetivo moral y otro físico me trajo a la memoria un verso de Shakespeare, que discutimos una tarde:
Where a malignant and a turbaned Turk...
¿Por qué precisamente el Quijote? dirá nuestro lector. Esa preferencia, en un español, no hubiera sido inexplicable; pero sin duda lo es en un simbolista de Nîmes, devoto esencialmente de Poe, que engendró a Baudelaire, que engendró a Mallarmé, que engendró a Valéry, que engendró a Edmond Teste. La carta precitada ilumina el punto. “El Quijote”, aclara Menard, “me interesa profundamente, pero no me parece ¿cómo lo diré? inevitable. No puedo imaginar el universo sin la interjección de Edgar Allan Poe:
Ah, bear in mind this garden was enchanted!

o sin el Bateau ivre o el Ancient Mariner, pero me sé capaz de imaginarlo sin el Quijote. (Hablo, naturalmente, de mi capacidad personal, no de la resonancia histórica de las obras.) El Quijote es un libro contingente, el Quijote es innecesario. Puedo premeditar su escritura, puedo escribirlo, sin incurrir en una tautología. A los doce o trece años lo leí, tal vez íntegramente. Después, he releído con atención algunos capítulos, aquellos que no intentaré por ahora. He cursado asimismo los entremeses, las comedias, la Galatea, las Novelas ejemplares, los trabajos sin duda laboriosos de Persiles y Segismunda y el Viaje del Parnaso... Mi recuerdo general del Quijote, simplificado por el olvido y la indiferencia, puede muy bien equivaler a la imprecisa imagen anterior de un libro no escrito. Postulada esa imagen (que nadie en buena ley me puede negar) es indiscutible que mi problema es harto más difícil que el de Cervantes. Mi complaciente precursor no rehusó la colaboración del azar: iba componiendo la obra inmortal un poco à la diable, llevado por inercias del lenguaje y de la invención. Yo he contraído el misterioso deber de reconstruir literalmente su obra espontánea. Mi solitario juego está gobernado por dos leyes polares. La primera me permite ensayar variantes de tipo formal o psicológico; la segunda me obliga a sacrificarlas al texto ‘original’ y a razonar de un modo irrefutable esa aniquilación... A esas trabas artificiales hay que sumar otra, congénita. Componer el Quijote a principios del siglo diecisiete era una empresa razonable, necesaria, acaso fatal; a principios del veinte, es casi imposible. No en vano han transcurrido trescientos años, cargados de complejísimos hechos. Entre ellos, para mencionar uno solo: el mismo Quijote.”

A pesar de esos tres obstáculos, el fragmentario Quijote de Menard es más sutil que el de Cervantes. Éste, de un modo burdo, opone a las ficciones caballerescas la pobre realidad provinciana de su país; Menard elige como “realidad” la tierra de Carmen durante el siglo de Lepanto y de Lope. ¡Qué españoladas no habría aconsejado esa elección a Maurice Barrès o al doctor Rodríguez Larreta! Menard, con toda naturalidad, las elude. En su obra no hay gitanerías ni conquistadores ni místicos ni Felipe II ni autos de fe. Desatiende o proscribe el color local. Ese desdén indica un sentido nuevo de la novela histórica. Ese desdén condena a Salammbô, inapelablemente.

No menos asombroso es considerar capítulos aislados. Por ejemplo, examinemos el xxxviii de la primera parte, “que trata del curioso discurso que hizo don Quixote de las armas y las letras”. Es sabido que don Quijote (como Quevedo en el pasaje análogo, y posterior, de La hora de todos) falla el pleito contra las letras y en favor de las armas. Cervantes era un viejo militar: su fallo se explica. ¡Pero que el don Quijote de Pierre Menard -hombre contemporáneo de La trahison des clercs y de Bertrand Russell- reincida en esas nebulosas sofisterías! Madame Bachelier ha visto en ellas una admirable y típica subordinación del autor a la psicología del héroe; otros (nada perspicazmente) una transcripción del Quijote; la baronesa de Bacourt, la influencia de Nietzsche. A esa tercera interpretación (que juzgo irrefutable) no sé si me atreveré a añadir una cuarta, que condice muy bien con la casi divina modestia de Pierre Menard: su hábito resignado o irónico de propagar ideas que eran el estricto reverso de las preferidas por él. (Rememoremos otra vez su diatriba contra Paul Valéry en la efímera hoja superrealista de Jacques Reboul.) El texto de Cervantes y el de Menard son verbalmente idénticos, pero el segundo es casi infinitamente más rico. (Más ambiguo, dirán sus detractores; pero la ambigüedad es una riqueza.)

Es una revelación cotejar el Don Quijote de Menard con el de Cervantes. Éste, por ejemplo, escribió (Don Quijote, primera parte, noveno capítulo):

... la verdad, cuya madre es la historia, émula del tiempo, depósito de las acciones, testigo de lo pasado, ejemplo y aviso de lo presente, advertencia de lo por venir.

Redactada en el siglo diecisiete, redactada por el “ingenio lego” Cervantes, esa enumeración es un mero elogio retórico de la historia. Menard, en cambio, escribe:

... la verdad, cuya madre es la historia, émula del tiempo, depósito de las acciones, testigo de lo pasado, ejemplo y aviso de lo presente, advertencia de lo por venir.

La historia, madre de la verdad; la idea es asombrosa. Menard, contemporáneo de William James, no define la historia como una indagación de la realidad sino como su origen. La verdad histórica, para él, no es lo que sucedió; es lo que juzgamos que sucedió. Las cláusulas finales -ejemplo y aviso de lo presente, advertencia de lo por venir- son descaradamente pragmáticas.

También es vívido el contraste de los estilos. El estilo arcaizante de Menard -extranjero al fin- adolece de alguna afectación. No así el del precursor, que maneja con desenfado el español corriente de su época.

No hay ejercicio intelectual que no sea finalmente inútil. Una doctrina es al principio una descripción verosímil del universo; giran los años y es un mero capítulo -cuando no un párrafo o un nombre- de la historia de la filosofía. En la literatura, esa caducidad es aún más notoria. El Quijote -me dijo Menard- fue ante todo un libro agradable; ahora es una ocasión de brindis patriótico, de soberbia gramatical, de obscenas ediciones de lujo. La gloria es una incomprensión y quizá la peor.

Nada tienen de nuevo esas comprobaciones nihilistas; lo singular es la decisión que de ellas derivó Pierre Menard. Resolvió adelantarse a la vanidad que aguarda todas las fatigas del hombre; acometió una empresa complejísima y de antemano fútil. Dedicó sus escrúpulos y vigilias a repetir en un idioma ajeno un libro preexistente. Multiplicó los borradores; corrigió tenazmente y desgarró miles de páginas manuscritas.[3] No permitió que fueran examinadas por nadie y cuidó que no le sobrevivieran. En vano he procurado reconstruirlas.

He reflexionado que es lícito ver en el Quijote “final” una especie de palimpsesto, en el que deben traslucirse los rastros -Tenues pero no indescifrables- de la “previa” escritura de nuestro amigo. Desgraciadamente, sólo un segundo Pierre Menard, invirtiendo el trabajo del anterior, podría exhumar y resucitar esas Troyas...

“Pensar, analizar, inventar (me escribió también) no son actos anómalos, son la normal respiración de la inteligencia. Glorificar el ocasional cumplimiento de esa función, atesorar antiguos y ajenos pensamientos, recordar con incrédulo estupor que el doctor universalis pensó, es confesar nuestra languidez o nuestra barbarie. Todo hombre debe ser capaz de todas las ideas y entiendo que en el porvenir lo será.”

Menard (acaso sin quererlo) ha enriquecido mediante una técnica nueva el arte detenido y rudimentario de la lectura: la técnica del anacronismo deliberado y de las atribuciones erróneas. Esa técnica de aplicación infinita nos insta a recorrer la Odisea como si fuera posterior a la Eneida y el libro Le jardin du Centaure de madame Henri Bachelier como si fuera de madame Henri Bachelier. Esa técnica puebla de aventura los libros más calmosos. Atribuir a Louis Ferdinand Céline o a James Joyce la Imitación de Cristo ¿no es una suficiente renovación de esos tenues avisos espirituales?

Nîmes, 1939

[1] Madame Henri Bachelier enumera asimismo una versión literal de la versión literal que hizo Quevedo de la Introduction à la vie dévote de san Francisco de Sales. En la biblioteca de Pierre Menard no hay rastros de tal obra. Debe tratarse de una broma de nuestro amigo, mal escuchada.

[2] Tuve también el propósito secundario de bosquejar la imagen de Pierre Menard. Pero ¿cómo atreverme a competir con las páginas áureas que me dicen prepara la baronesa de Bacourt o con el lápiz delicado y puntual de Carolus Hourcade?

[3] Recuerdo sus cuadernos cuadriculados, sus negras tachaduras, sus peculiares símbolos tipográficos y su letra de insecto. En los atardeceres le gustaba salir a caminar por los arrabales de Nîmes; solía llevar consigo un cuaderno y hacer una alegre fogata.

Referencia: http://www.apocatastasis.com/narrativa/pierre-menard-autor-quijote-borges.php#ixzz0jR8HE7ic

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Cuento:La casa de Asterión de Jorge Luis Borges

Y la reina dió a luz un hijo que se
llamó Asterión
APOLODORO, Biblioteca, III, I

Sé que me acusan de soberbia, y tal vez de misantropía, y tal vez de locura. Tales acusaciones (que yo castigaré a su debido tiempo) son irrisorias. Es verdad que no salgo de mi casa, pero también es verdad que sus puertas (cuyo número es infinito (1) están abiertas día y noche a los hombres y también a los animales. Que entre el que quiera. No hallará pompas mujeriles aquí ni el bizarro aparato de los palacios, pero sí la quietud y la soledad. Asimismo hallará una casa como no hay otra en la faz de la Tierra. (Mienten los que declaran que en Egipto hay una parecida.) Hasta mis detractores admiten que no hay un solo mueble en la casa. Otra especie ridícula es que yo, Asterión, soy un prisionero. ¿Repetiré que no hay una puerta cerrada, añadiré que no hay una cerradura? Por lo demás, algún atardecer he pisado la calle; si antes de la noche volví, lo hice por el temor que me infundieron las caras de la plebe, caras descoloridas y aplanadas, como la mano abierta. Ya se había puesto el Sol, pero el desvalido llanto de un niño y las toscas plegarias de la grey dijeron que me habían reconocido. La gente oraba, huía, se prosternaba; unos se encaramaban al estilóbato del templo de las Hachas, otros juntaban piedras. Alguno, creo, se ocultó bajo el mar. No en vano fue una reina mi madre; no puedo confundirme con el vulgo, aunque mi modestia lo quiera.
El hecho es que soy único. no me interesa lo que un hombre pueda transmitir a otros hombres; como el filósofo, pienso que nada es comunicable por el arte de la escritura. Las enojosas y triviales minucias no tienen cabida en mi espíritu, que está capacitado para lo grande; jamás he retenido la diferencia entre una letra y otra. Cierta impaciencia generosa no ha consentido que yo aprendiera a leer. A veces lo deploro, porque las noches y los días son largos.

Claro que no me faltan distracciones. Semejante al carnero que va a embestir, corro por las galerías de piedra hasta rodar al suelo, mareado. Me agazapo a la sombra de un aljibe o a la vuelta de un corredor y juego a que me buscan. Hay azoteas desde las que me dejo caer, hasta ensangrentarme. A cualquier hora puedo jugar a estar dormido, con los ojos cerrados y la respiración poderosa. ( A veces me duermo realmente, a veces ha cambiado el color del día cuando he abierto los ojos.) Pero de tantos juegos el que prefiero es el del otro Asterión. Finjo que viene a visitarme y que yo le muestro la casa. Con grandes reverencias le digo: Ahora volvemos a la encrucijada anterior o Ahora desembocamos en otro patio o Bien decía yo que te gustaría la canaleta o Ahora verás una cisterna que se llenó de arena o Ya verás cómo el sótano se bifurca. A veces me equivoco y nos reímos buenamente los dos.

No sólo he imaginado esos juegos; también he meditado sobre la casa. Todas las partes de la casa están muchas veces, cualquier lugar es otro lugar. No hay un aljibe, un patio, un abrevadero, un pesebre; son catorce [son infinitos] los pesebres, abrevaderos, patios, aljibes. La casa es del tamaño del mundo; mejor dicho, es el mundo. Sin embargo, a fuerza de fatigar patios con un aljibe y polvorientas galerías de piedra gris he alcanzado la calle y he visto el templo de las Hachas y el mar. Esto no lo entendí hasta que una visión de la noche me reveló que también son catorce [son infinitos] los mares y los templos. Todo está muchas veces, catorce veces, pero dos cosas hay en el mundo que parecen estar una sola vez: arriba, el intrincado Sol; abajo, Asterión. Quizá yo he creado las estrellas y el Sol y la enorme casa, pero ya no me acuerdo.

Cada nueve años entran en la casa nueve hombres para que yo los libere de todo mal. Oigo sus pasos o su voz en el fondo de las galerías de piedra y corro alegremente a buscarlos. La ceremonia dura pocos minutos. Uno tras otro caen sin que yo me ensangriente las manos. Donde cayeron, quedan, y los cadáveres ayudan a distinguir una galería de las otras. Ignoro quiénes son, pero sé que uno de ellos profetizó, en la hora de su muerte, que alguna vez llegaría mi redentor. Desde entonces no me duele la soledad, porque sé que vive mi redentor y al fin se levantará sobre el polvo. Si mi oído alcanzara todos los rumores del mundo, yo percibiría sus pasos. Ojalá que me lleve a un lugar con menos galerías y menos puertas. ¿Cómo será mi redentor?, me pregunto. ¿Será un toro o un hombre? ¿Será tal vez un toro con cara de hombre? ¿O será como yo?

El Sol de la mañana reverberó en la espada de bronce. Ya no quedaba un vestigio de sangre.

- ¿Lo creerás, Ariadna? - dijo Teseo -. El minotauro apenas se defendió.

A Marta Mosquera Eastman

El original dice catorce, pero sobran motivos para inferir que en boca de Asterión, ese adjetivo numeral vale por infinitos.

Referencia: http://www.apocatastasis.com/la-casa-de-asterion-jorge-luis-borges.php#ixzz0jR4TgXr
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Cuento: El muerto de Jorge Luis Borges

Que un hombre del suburbio de Buenos Aires, que un triste compadrito sin más virtud que la infatuación del coraje, se interne en los desiertos ecuestres de la frontera del Brasil y llegue a capitán de contrabandistas, parece de antemano imposible. A quienes lo entienden así, quiero contarles el destino de Benjamin Otálora, de quien acaso no perdura un recuerdo en el barrio de Balvanera y que murió en su ley, de un balazo, en los confines de Río Grande do Sul. Ignoro los detalles de su aventura; cuando me sean revelados, he de rectificar y ampliar estas páginas. Por ahora, este resumen puede ser útil.


Benjamín Otálora cuenta, hacia 1891, diecinueve años. Es un mocetón de frente mezquina, de sinceros ojos claros, de reciedumbre vasca; una puñalada feliz le ha revelado que es un hombre valiente; no lo inquieta la muerte de su contrario, tampoco la inmediata necesidad de huir de la República. El caudillo de la parroquia le da una carta para un tal Azevedo Bandeira, del Uruguay. Otálora se embarca, la travesía es tormentosa y crujiente; al otro día, vaga por las calles de Montevideo, con inconfesada y tal vez ignorada tristeza. No da con Azevedo Bandeira; hacia la medianoche, en un almacén del Paso del Molino, asiste a un altercado entre unos troperos. Un cuchillo relumbra; Otálora no sabe de qué lado está la razón, pero lo atrae el puro sabor del peligro, como a otros la baraja o la música. Para, en el entrevero, una puñalada baja que un peón le tira a un hombre de galera oscura y de poncho. Éste, después, resulta ser Azevedo Bandeira. (Otálora, al saberlo, rompe la carta, porque prefiere debérselo todo a sí mismo.) Azevedo Bandeira da, aunque fornido, la injustificable impresión de ser contrahecho; en su rostro, siempre demasiado cercano, están el judío, el negro y el indio; en su empaque, el mono y el tigre; la cicatriz que le atraviesa la cara es un adorno más, como el negro bigote cerdoso.

Proyección o error del alcohol, el altercado cesa con la misma rapidez con que se produjo. Otálora bebe con los troperos y luego los acompaña a una farra y luego a un caserón en la Ciudad Vieja, ya con el sol bien alto. En el último patio, que es de tierra, los hombres tienden su recado para dormir. Oscuramente, Otálora compara esa noche con la anterior; ahora ya pisa tierra firme, entre amigos. Lo inquieta algún remordimiento, eso sí, de no extrañar a Buenos Aires. Duerme hasta la oración, cuando lo despierta el paisano que agredió, borracho, a Bandeira. (Otálora recuerda que ese hombre ha compartido con los otros la noche de tumulto y de júbilo y que Bandeira lo sentó a su derecha y lo obligó a seguir bebiendo.) El hombre le dice que el patrón lo manda buscar. En una suerte de escritorio que da al zaguán (Otálora nunca ha visto un zaguán con puertas laterales) está esperándolo Azevedo Bandeira, con una clara y desdeñosa mujer de pelo colorado. Bandeira lo pondera, le ofrece una copa de caña, le repite que le está pareciendo un hombre animoso, le propone ir al Norte con los demás a traer una tropa. Otálora acepta; hacia la madrugada están en camino, rumbo a Tacuarembó.

Empieza entonces para Otálora una vida distinta, una vida de vastos amaneceres y de jornadas que tienen el olor del caballo. Esa vida es nueva para él, y a veces atroz, pero ya está en su sangre, porque lo mismo que los hombres de otras naciones veneran y presienten el mar, así nosotros (también el hombre que entreteje estos símbolos) ansiamos la llanura inagotable que resuena bajo los cascos. Otálora se ha criado en los barrios del carrero y del cuarteador; antes de un año se hace gaucho. Aprende a jinetear, a entropillar la hacienda, a carnear, a manejar el lazo que sujeta y las boleadoras que tumban, a resistir el sueño, las tormentas, las heladas y el sol, a arrear con el silbido y el grito. Sólo una vez, durante ese tiempo de aprendizaje, ve a Azevedo Bandeira, pero lo tiene muy presente, porque ser hombre de Bandeira es ser considerado y temido, y porque, ante cualquier hombrada, los gauchos dicen que Bandeira lo hace mejor. Alguien opina que Bandeira nació del otro lado del Cuareim, en Rio Grande do Sul; eso, que debería rebajarlo, oscuramente lo enriquece de selvas populosas, de ciénagas, de inextricable y casi infinitas distancias. Gradualmente, Otálora entiende que los negocios de Bandeira son múltiples y que el principal es el contrabando. Ser tropero es ser un sirviente; Otálora se propone ascender a contrabandista. Dos de los compañeros, una noche, cruzarán la frontera para volver con unas partidas de caña; Otálora provoca a uno de ellos, lo hiere y toma su lugar. Lo mueve la ambición y también una oscura fidelidad. Que el hombre (piensa) acabe por entender que yo valgo más que todos sus orientales juntos.

Otro año pasa antes que Otálora regrese a Montevideo. Recorren las orillas, la ciudad (que a Otálora le parece muy grande); llegan a casa del patrón; los hombres tienden los recados en el último patio. Pasan los días y Otálora no ha visto a Bandeira. Dicen, con temor, que está enfermo; un moreno suele subir a su dormitorio con la caldera y con el mate. Una tarde, le encomiendan a Otálora esa tarea. Éste se siente vagamente humillado, pero satisfecho también.

El dormitorio es desmantelado y oscuro. Hay un balcón que mira al poniente, hay una larga mesa con un resplandeciente desorden de taleros, de arreadores, de cintos, de armas de fuego y de armas blancas, hay un remoto espejo que tiene la luna empañada. Bandeira yace boca arriba; sueña y se queja; una vehemencia de sol último lo define. El vasto lecho blanco parece disminuirlo y oscurecerlo; Otálora nota las canas, la fatiga, la flojedad, las grietas de los años. Lo subleva que los esté mandando ese viejo. Piensa que un golpe bastaría para dar cuenta de él. En eso, ve en el espejo que alguien ha entrado. Es la mujer de pelo rojo; está a medio vestir y descalza y lo observa con fría curiosidad. Bandeira se incorpora; mientras habla de cosas de la campaña y despacha mate tras mate, sus dedos juegan con las trenzas de la mujer. Al fin, le da licencia a Otálora para irse.

Días después, les llega la orden de ir al Norte. Arriban a una estancia perdida, que está como en cualquier lugar de la interminable llanura. Ni árboles ni un arroyo la alegran, el primer sol y el ú ltimo la golpean. Hay corrales de piedra para la hacienda, que es guampuda y menesterosa. El Suspiro se llama ese pobre establecimi ento.

Otálora oye en rueda de peones que Bandeira no tardará en llegar de Montevideo. Pre gunta por qué; alguien aclara que hay un forastero agauchado que está queriendo mandar demasiado. Otálora com prende que es una broma, pero le halaga que esa broma ya sea posible. Averigua, después, que Bandeira se ha enemistado con uno de los jefes políticos y que éste le ha retirado su apoyo. Le gusta esa noticia.

Llegan cajones de armas largas; llegan una jarra y una palangana de plata para el aposento de la mujer; llegan cortinas de intrincado damasco; llega de las cuchillas, una mañana, un jinete sombrío, de barba cerrada y de poncho. Se llama Ulpiano Suárez y es el capanga o guardaespaldas de Azevedo Bandeira. Habla muy poco y de una manera abrasilerada. Otálora no sabe si atribuir su reserva a hostilidad, a desdén o a mera barbarie. Sabe, eso sí, que para el plan que está maquinando tiene que ganar su amistad.

Entra después en el destino de Benjamín Otálora un colorado cabos negros que trae del sur Azevedo Bandeira y que luce apero chapeado y carona con bordes de piel de tigre. Ese caballo liberal es un símbolo de la autoridad del patrón y por eso lo codicia el muchacho, que llega también a desear, con deseo rencoroso, a la mujer de pelo resplandeciente. La mujer, el apero y el colorado son atributos o adjetivos de un hombre que él aspira a destruir.

Aquí la historia se complica y se ahonda. Azevedo Bandeira es diestro en el arte de la intimidación progresiva, en la satánica maniobra de humillar al interlocutor gradualmente, combinando veras y burlas; Otálora resuelve aplicar ese método ambiguo a la dura tarea que se propone. Resuelve suplantar, lentamente, a Azevedo Bandeira. Logra, en jornadas de peligro común, la amistad de Suárez. Le confía su plan; Suárez le promete su ayuda. Muchas cosas van aconteciendo después, de las que sé unas pocas. Otálora no obedece a Bandeira; da en olvidar, en corregir, en invertir sus órdenes. El universo parece conspirar con él y apresura los hechos. Un mediodía, ocurre en campos de Tacuarembó un tiroteo con gente riograndense; Otálora usurpa el lugar de Bandeira y manda a los orientales. Le atraviesa el hombro una bala, pero esa tarde Otálora regresa al Suspiro en el colorado del jefe y esa tarde unas gotas de su sangre manchan la piel de tigre y esa noche duerme con la mujer de pelo reluciente. Otras versiones cambian el orden de estos hechos y niegan que hayan ocurrido en un solo día.

Bandeira, sin embargo, siempre es nominalmente el jefe. Da órdenes que no se ejecutan; Benjamín Otálora no lo toca, por una mezcla de rutina y de lástima.

La última escena de la historia corresponde a la agitación de la última noche de 1894. Esa noche, los hombres del Suspiro comen cordero recién carneado y beben un alcohol pendenciero. Alguien infinitamente rasguea una trabajosa milonga. En la cabecera de la mesa, Otálora, borracho, erige exultación sobre exultación, júbilo sobre júbilo; esa torre de vértigo es un símbolo de su irresistible destino. Bandeira, taciturno entre los que gritan, deja que fluya clamorosa la noche. Cuando las doce campanadas resuenan, se levanta como quien recuerda una obligación. Se levanta y golpea con suavidad a la puerta de la mujer. Ésta le abre en seguida, como si esperara el llamado. Sale a medio vestir y descalza. Con una voz que se afemina y se arrastra, el jefe le ordena:

-Ya que vos y el porteño se quieren tanto, ahora mismo le vas a dar un beso a vista de todos.

Agrega una circunstancia brutal. La mujer quiere resistir, pero dos hombres la han tomado del brazo y la echan sobre Otálora. Arrasada en lágrimas, le besa la cara y el pecho. Ulpiano Suárez ha empuñado el revólver. Otálora comprende, antes de morir, que desde el principio lo han traicionado, que ha sido condenado a muerte, que le han permitido el amor, el mando y el triunfo, porque ya lo daban por muerto, porque para Bandeira ya estaba muerto.

Suárez, casi con desdén, hace fuego.

Referencia: http://www.apocatastasis.com/el-muerto-cuento-jorge-luis-borges.php#ixzz0jR2MqOIm
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Cuento:La muerte y la brújula de Jorge Luis Borges

De los muchos problemas que ejercitaron la temeraria perspicacia de Lönnrot, ninguno tan extraño - tan rigurosamente extraño, diremos - como la periódica serie de hechos de sangre que culminaron en la quinta de Triste-le-Roy, entre el interminable olor de los eucaliptos. Es verdad que Erik Lönnrot no logró impedir el último crimen, pero es indiscutible que lo previó. Tampoco adivinó la identidad del infausto asesino de Yarmolinsky, pero sí la secreta morfología de la malvada serie y la participación de Red Scharlach, cuyo segundo apodo es Scharlach el Dandy. Ese criminal (como tantos) había jurado por su honor la muerte de Lönnrot, pero éste nunca se dejó intimidar. Lönnrot se creía un puro razonador, un Auguste Dupin, pero algo de aventurero había en él y hasta de tahur.
El primer crimen ocurrió en el Hôtel du Nord, ese alto prisma que domina el estuario cuyas aguas tienen el color del desierto. A esa torre (que muy notoriamente reúne la aborrecida blancura de un sanatorio, la numerada divisibilidad de una cárcel y la apariencia general de una casa mala) arribó el día tres de diciembre el delegado de Podólsk al Tercer Congreso Talmúdico, doctor Marcelo Yarmolinsky, hombre de barba gris y ojos grises. Nunca sabremos si el Hôtel du Nord le agradó: lo aceptó con la antigua resignación que le había permitido tolerar tres años de guerra en los Cárpatos y tres mil años de opresión y de pogroms. Le dieron un dormitorio en el piso R, frente a la suite que no sin esplendor ocupaba el Tetrarca de Galilea. Yarmolinsky cenó, postergó para el día siguiente el examen de la desconocida ciudad, ordenó en un placard sus muchos libros y sus muy pocas prendas, y antes de medianoche apagó la luz. (Así lo declaró el chauffeur del Tetrarca, que dormía en la pieza contigua.) El cuatro, a las 11 y 3 minutos A.M., lo llamó por teléfono un redactor de la Yidische Zaitung; el doctor Yarmolinsky no respondió; lo hallaron en su pieza, ya levemente oscura la cara, casi desnudo bajo una gran capa anacrónica. Yacía no lejos de la puerta que daba al corredor; una puñalada profunda le había partido el pecho. Un par de horas después, en el mismo cuarto, entre periodistas, fotógrafos y gendarmes, el comisario Treviranus y Lönnrot debatían con serenidad el problema.

-No hay que buscarle tres pies al gato-decía Treviranus, blandiendo un imperioso cigarro-.Todos sabemos que el Tetrarca de Galilea posee los mejores zafiros del mundo. Alguien, para robarlos, habrá penetrado aquí por error. Yarmolinsky se ha levantado; el ladrón ha tenido que matarlo. ¿Qué le parece?

-Posible, pero no interesante-respondió Lönnrot-. Usted replicará que la realidad no tiene la menor obligación de ser interesante. Yo le replicaré que la realidad puede prescindir de esa obligación, pero no las hipótesis. En la que usted ha improvisado interviene copiosamente el azar. He aquí un rabino muerto; yo preferiría una explicación puramente rabínica, no los imaginarios percances de un imaginario ladrón.

Treviranus repuso con mal humor:

-No me interesan las explicaciones rabínicas; me interesa la captura del hombre que apuñaló a este desconocido.

-No tan desconocido-corrigió Lönnrot -. Aquí están sus obras completas-. Indicó en el placard una fila de altos volúmenes; una Vindicación de la cábala; un Examen de la filosofía de Robert Fludd; una traducción literal del Sepher Yezirah; una Biografía del Baal Shem; una Historia de la secta de los Hasidim; una monografía (en alemán) sobre el Tetragrámaton; otra, sobre la nomenclatura divina del Pentateuco. El comisario los miró con temor, casi con repulsión. Luego, se echó a reír.

-Soy un pobre cristiano-repuso-. Llévese todos esos mamotretos, si quiere; no tengo tiempo que perder en supersticiones judías.

-Quizás este crimen pertenece a la historia de las supersticiones judías-murmuró Lönnrot.

-Como el cristianismo-se atrevió a completar el redactor de la Yidische Zaitung. Era miope, ateo y muy tímido.

Nadie le contestó. Uno de los agentes había encontrado en la pequeña máquina de escribir una hoja de papel con esta sentencia inconclusa.

La primera letra del Nombre

ha sido articulada.

Lönnrot se abstuvo de sonreír. Bruscamente bibliófilo o hebraísta, ordenó que le hicieran un paquete con los libros del muerto y los llevó a su departamento. Indiferente a la investigación policial, se dedicó a estudiarlos. Un libro en octavo mayor le reveló las enseñanzas de Israel Baal Shem Tobh, fundador de la secta de los Piadosos; otro, las virtudes y terrores del Tetragrámaton, que es el inefable Nombre de Dios; otro, la tesis de que Dios tiene un nombre secreto, en el cual está compendiado (como en la esfera de cristal que los persas atribuyen a Alejandro de Macedonia), su noveno atributo, la eternidad, es decir, el conocimiento inmediato de todas las cosas que serán, que son y que han sido en el universo. La tradición enumera noventa y nueve nombres de Dios; los hebraístas atribuyen ese imperfecto número al mágico temor de las cifras pares; los Hasidim razonan que ese hiato señala un centésimo nombre. El Nombre Absoluto.

De esa erudición lo distrajo, a los pocos días, la aparición del redactor de la Yidische Zaitung. Este quería hablar del asesinato; Lönnrot prefirió hablar de los diversos nombres de Dios; el periodista declaró en tres columnas que el investigador Erik Lönnrot se había dedicado a estudiar los nombres de Dios para dar con el nombre del asesino. Lönnrot, habituado a las simplificaciones del periodismo, no se indignó. Uno de esos tenderos que han descubierto que cualquier hombre se resigna a comprar cualquier libro, publicó una edición popular de la Historia de la secta de los Hasidim.

El segundo crimen ocurrió la noche del tres de enero, en el más desamparado y vacío de los huecos suburbios occidentales de la capital. Hacia el amanecer, uno de los gendarmes que vigilan a caballo esas soledades vio en el umbral de una antigua pintorería un hombre emponchado, yacente. El duro rostro estaba como enmascarado de sangre; una puñalada profunda le había rajado el pecho. En la pared, sobre los rombos amarillos y rojos, había unas palabras en tiza. El gendarme las deletreó... Esa tarde, Treviranus y Lönnrot se dirigieron a la remota escena del crimen. A izquierda y derecha del automóvil, la ciudad se desintegraba; crecía el firmamento y ya importaban poco las casas y mucho un horno de ladrillos o un álamo. Llegaron a su pobre destino: un callejón final de tapias rosadas que parecían reflejar de algún modo la desaforada puesta de sol. El muerto ya había sido identificado. Era Daniel Simó Azevedo, hombre de alguna fama en los antiguos arrabales del Norte, que había ascendido de carrero a guapo electoral, para degenerar después en ladrón y hasta en delator. (El singular estilo de su muerte les pareció adecuado: Azevedo era el último representante de una generación de bandidos que sabía el manejo del puñal, pero no del revólver.) Las palabras en tiza eran las siguientes:

La segunda letra del Nombre

ha sido articulada.

El tercer crimen ocurrió la noche del tres de febrero. Poco antes de la una, el teléfono resonó en la oficina del comisario Treviranus. Con ávido sigilo, habló un hombre de voz gutural; dijo que se llamaba Ginzberg (o Ginsburg), y que estaba dispuesto a comunicar, por una remuneración razonable, los hechos de los dos sacrificios de Azevedo y Yarmolinsky. Una discordia de silbidos y de cornetas ahogó la voz del delator. Después, la comunicación se cortó. Sin rechazar la posibilidad de una broma (al fin, estaban en carnaval), Treviranus indagó que le habían hablado desde el Liverpool House, taberna de la Rue de Toulon -esa calle salobre en la que conviven el cosmorama y la lechería, el burdel y los vendedores de biblias. Treviranus habló con el patrón. Este (Black Finnegan, antiguo criminal irlandés, abrumado y casi anulado por la decencia) le dijo que la última persona que había empleado el teléfono de la casa era un inquilino, un tal Gryphius, que acababa de salir con unos amigos. Treviranus fue enseguida al Liverpool House. El patrón le comunicó lo siguiente: Hace ocho días, Gryphius había tomado pieza en los altos del bar. Era un hombre de rasgos afilados, de nebulosa barba gris, trajeado pobremente de negro; Finnegan (que destinaba esa habitación a un empleo que Treviranus adivinó) le pidió un alquiler sin duda excesivo; Gryphius inmediatamente pagó la suma estipulada. No salía casi nunca; cenaba y almorzaba en su cuarto; apenas si le conocían la cara en el bar. Esa noche, bajó a telefonear al despacho de Finnegan. Un cupé cerrado se detuvo ante la taberna. El cochero no se movió del pescante; algunos parroquianos recordaron que tenía máscara de oso. Del cupé bajaron dos arlequines; eran de reducida estatura y nadie pudo no observar que estaban muy borrachos. Entre balidos de cornetas, irrumpieron en el escritorio de Finnegan; abrazaron a Gryphius, que pareció reconocerlos, pero que les respondió con frialdad; cambiaron unas palabras en yiddish -él en voz baja, gutural, ellos con las voces falsas, agudas- y subieron a la pieza del fondo. Al cuarto de hora bajaron los tres, muy felices; Gryphius, tambaleante, parecía tan borracho como los otros. Iba, alto y vertiginoso, en el medio, entre los arlequines enmascarados. (Una de las mujeres del bar recordó los losanges amarillos, rojos y verdes.) Dos veces tropezó; dos veces lo sujetaron los arlequines. Rumbo a la dársena inmediata, de agua rectangular, los tres subieron al cupé y desaparecieron. Ya en el estribo del cupé, el último arlequín garabateó una figura obscena y una sentencia en una de las pizarras de la recova.

Treviranus vio la sentencia. Era casi previsible; decía:

La última de las letras del Nombre

ha sido articulada.

Examinó, después, la piecita de Gryphius-Ginzberg. Había en el suelo una brusca estrella de sangre; en los rincones, restos de cigarrillo de marca húngara; en un armario, un libro en latín -el Philologus hebraeograecus(1739), de Leusden- con varias notas manuscritas. Treviranus lo miró con indignación e hizo buscar a Lönnrot. Este, sin sacarse el sombrero, se puso a leer, mientras el comisario interrogaba a los contradictorios testigos del secuestro posible. A las cuatro salieron. En la torcida Rue de Toulon, cuando pisaban las serpentinas muertas del alba, Treviranus dijo:

-¿Y si la historia de esta noche fuera un simulacro?

Erik Lönnrot sonrió y le leyó con toda gravedad un pasaje (que estaba subrayado) de la disertación trigésima tercera del Philologus: Dies Judaeorum incipit a solis occasu usque ad solis occasum diei sequentis. Esto quiere decir -agregó-, El día hebreo empieza al anochecer y dura hasta el siguiente anochecer.

El otro ensayó una ironía.

-¿Ese dato es el más valioso que usted ha recogido esta noche?

-No. Más valiosa es una palabra que dijo Ginzberg.

Los diarios de la tarde no descuidaron esas desapariciones periódicas. La Cruz de la Espada las contrastó con la admirable disciplina y el orden del último Congreso Eremítico; Erns Palast, en El Mártir, reprobó "las demoras intolerables de un pogrom clandestino y frugal, que ha necesitado tres meses para liquidar tres judíos"; la Yidische Zaitung rechazó la hipótesis horrorosa de un complot antisemita, "aunque muchos espíritus penetrantes no admiten otra solución del triple misterio"; el más ilustre de los pistoleros del Sur, Dandy Red Scharlach, juró que en su distrito nunca se producirían crímenes de ésos y acusó de culpable negligencia al comisario Franz Treviranus.

Este recibió, la noche del primero de marzo, un imponente sobre sellado. Lo abrió: el sobre contenía una carta firmada Baruj Spinoza y un minucioso plano de la ciudad, arrancado notoriamente de un Baedeker. La carta profetizaba que el tres de marzo no habría un cuarto crimen, pues la pinturería del Oeste, la taberna de la Rue de Toulon y el Hôtel du Nord eran "los vértices perfectos de un triángulo equilátero y místico"; el plano demostraba en tinta roja la regularidad de ese triángulo. Treviranus leyó con resignación ese argumento more geometrico y mandó la carta y el plano a casa de Lönnrot, indiscutible merecedor de tales locuras.

Erik Lönnrot las estudió. Los tres lugares, en efecto, eran equidistantes. Simetría en el tiempo (3 de diciembre, 3 de enero, 3 de febrero); simetría en el espacio también... Sintió, de pronto, que estaba por descifrar el misterio. Un compás y una brújula completaron esa brusca intuición. Sonrió, pronunció la palabra Tetragrámaton (de adquisición reciente) y llamó por teléfono al comisario. Le dijo:

-Gracias por ese triángulo equilátero que usted anoche me mandó. Me ha permitido resolver el problema. Mañana viernes los criminales estarán en la cárcel; podemos estar muy tranquilos.

-Entonces, ¿no planean un cuarto crimen?

-Precisamente, porque planean un cuarto crimen, podemos estar muy tranquilos.

-Lönnrot colgó el tubo. Una hora después, viajaba en un tren de los Ferrocarriles Australes, rumbo a la quinta abandonada de Triste-le-Roy. Al sur de la ciudad de mi cuento fluye un ciego riachuelo de aguas barrosas, infamado de curtiembres y de basuras. Del otro lado hay un suburbio donde, al amparo de un caudillo barcelonés, medran los pistoleros. Lönnrot sonrió al pensar que el más afamado -Red Scharlach- hubiera dado cualquier cosa por conocer su clandestina visita. Azevedo fue compañero de Scharlach; Lönnrot consideró la remota posibilidad de que la cuarta víctima fuera Scharlach. Después, la desechó... Virtualmente, había descifrado el problema; las meras circunstancias, la realidad (nombres, arrestos, caras, trámites judiciales y carcelarios) apenas le interesaban ahora. Quería pasear, quería descansar de tres meses de sedentaria investigación. Reflexionó que la explicación de los crímenes estaba en un triángulo anónimo y en una polvorienta palabra griega. El misterio casi le pareció cristalino; se abochornó de haberle dedicado cien días.

El tren paró en una silenciosa estación de cargas. Lönnrot bajó. El aire de la turbia llanura era húmedo y frío. Lönnrot echó a andar por el campo. Vio perros, vio un furgón en una vía muerta, vio el horizonte, vio un caballo plateado que bebía del agua crapulosa de un charco. Oscurecía cuando vio el mirador rectangular de la quinta de Triste-le-Roy, casi tan alto como los negros eucaliptos que lo rodeaban. Pensó que apenas un amanecer y un ocaso (un viejo resplandor en el oriente y otro en el occidente) lo separaban de la hora anhelada por los buscadores del Nombre.

Una herrumbrada verja definía el perímetro irregular de la quinta. El portón principal estaba cerrado. Lönnrot, sin mucha esperanza de entrar, dio toda la vuelta. De nuevo ante el porton infranqueable, metió la mano entre los barrotes, casi maquinalmente, y dio con el pasador. El chirrido del hierro lo sorprendió. Con una pasividad laboriosa, el portón entero cedió.

Lönnrot avanzó entre los eucaliptos, pisando confundidas generaciones de rotas hojas rígidas. Vista de cerca, la casa de la quinta de Triste-le-Roy abundaba en inútiles simetrías y en repeticiones maniáticas: a una Diana glacial en un nicho lóbrego correspondía en un segundo nicho otra Diana; un balcón se reflejaba en otro balcón; dobles escalinatas se abrían en doble balaustrada. Lönnrot rodeó la casa como había rodeado la quinta. Todo lo examinó: bajo el nivel de la terraza vio una estrecha persiana.

La empujó: unos pocos escalones de mármol descendían a un sotano. Lönnrot, que ya intuía las preferencias del arquitecto, adivino que en el opuesto muro del sótano había otros escalones. Los encontró, subió, alzó las manos y abrió la trampa de salida.

Un resplandor lo guió a una ventana. La abrió: una luna amarilla y circular definía en el triste jardín dos fuentes cegadas. Lönnrot exploró la casa. Por ante comedores y galerías salió a patios iguales y repetidas veces al mismo patio. Subió por escaleras polvorientas a antecámaras circulares; infinitamente se multiplicó en espejos opuestos; se cansó de abrir o entreabrir ventanas que le revelaban, afuera, el mismo desolado jardín desde varias alturas y varios ángulos; adentro, muebles con fundas amarillas y arañas embaladas en tarlatán. un dormitorio lo detuvo; en ese dormitorio, una sola flor en una copa de porcelana; al primer roce los pétalos antiguos se deshicieron. En el segundo piso, en el último, la casa le pareció infinita y creciente. La casa no es tan grande, pensó. La agrandan la penumbra, la simetría, los espejos, los muchos años, mi desconocimiento, la soledad.

Por una escalera espiral llegó al mirador. La luna de esa tarde atravesaba los losanges de las ventanas; eran amarillos, rojos y verdes. Lo detuvo un recuerdo asombrado y vertiginoso. Dos hombres de pequeña estatura, feroces y fornidos, se arrojaron sobre él y lo desarmaron; otro, muy alto, lo saludó con gravedad y le dijo:

-Usted es muy amable. Nos ha ahorrado una noche y un día.

Era Red Scharlach. Los hombres maniataron a Lönnrot. Este, al fin, encontró su voz.

-Scharlach, ¿usted busca el Nombre Secreto?

Scharlach seguía de pie, indiferente. No había participado en la breve lucha, apenas si alargó la mano para recibir el revólver de Lönnrot. Habló; Lönnrot oyó en su voz una fatigada victoria, un odio del tamaño del universo, una tristeza no menor que aquel odio.

-No- dijo Scharlach.- Busco algo más efímero y deleznable, busco a Erik Lönnrot. Hace tres años, en un garito de la Rue de Toulon, usted mismo arrestó e hizo encarcelar a mi hermano. En un cupé, mis hombres me sacaron del tiroteo con una bala policial en el vientre. Nueve días y nueve noches agonicé en esta desolada quinta simétrica; me arrasaba la fiebre, el odioso Jano bifronte que mira los ocasos y las auroras daban horror a mi ensueño y a mi vigilia. Llegué a abominar de mi cuerpo, llegué a sentir que dos ojos, dos manos, dos pulmones, son tan mostruosos como dos caras. Un irlandés trató de convertirme a la fe de Jesús; me repetía la sentencia de los goim: Todos los caminos llevan a Roma. De noche, mi delirio se alimentaba de esa metáfora: yo sentía que el mundo es un laberinto, del cual era imposible huir, pues todos los caminos, aunque fingieran ir al Norte o al Sur, iban realmente a Roma, que era también la cárcel cuadrangular donde agonizaba mi hermano y la quinta de Triste-le-Roy. En esas noches yo juré por el dios que ve con dos caras y por todos los dioses de la fiebre y de los espejos tejer un laberinto en torno del hombre que había encarcelado a mi hermano. Lo he tejido y es firme: los materiales son un heresiólogo muerto, una brújula, una secta del siglo XVIII, una palabra griega, un puñal, los rombos de una pinturería.

El primer término de la serie me fue dado por el azar. Yo había tramado con algunos colegas- entre ellos, Daniel Azevedo- el robo de los zafiros del Tetrarca. Azevedo nos traicionó: se emborrachó con el dinero que le habíamos adelantado y acometió la empresa el día antes. En el enorme hotel se perdió; hacia las dos de la madrugada irrumpió en el dormitorio de Yarmolinsky. Este, acosado por el insomio, se había puesto a escribir. Verosímilmente, redactaba unas notas o un artículo sobre el Nombre de Dios; había escrito ya las palabras La primera letra del Nombre ha sido articulada. Azevedo le intimó silencio; Yarmolinsky alargó la mano hacia el timbre que despertaría todas las fuerzas del hotel; Azevedo le dio una sola puñalada en el pecho. Fue casi un movimiento reflejo; medio siglo de violencia le había enseñado que lo más fácil y seguro es matar... A los diez días yo supe por la Yidische Zaitung que usted buscaba en los escritos de Yarmolinsky la clave de la muerte de Yarmolinsky. Leí la Historia de la secta de los Hasidim; supe que el miedo reverente de pronunciar el Nombre de Dios había originado la doctrina de que ese Nombre es todopoderoso y recóndito. Supe que algunos Hasidim, en busca de ese Nombre secreto, habían llegado a cometer sacrificios humanos... Comprendí que usted conjeturaba que los Hasidim habían sacrificado al rabino; me dediqué a justificar esa conjetura.

Marcelo Yarmolinsky murió la noche del 3 de diciembre; para el segundo "sacrificio" elegí la noche del 3 de enero. Murió en el Norte; para el segundo "sacrificio" nos convenía un lugar del Oeste. Daniel Azevedo fue la víctima necesaria. Merecía la muerte: era un impulsivo, un traidor; su captura podía aniquilar todo el plan. Uno de los nuestros lo apuñaló; para vincular su cadáver al anterior, yo escribí encima de los rombos de la pinturería La segunda letra del Nombre ha sido articulada.

El tercer "crimen" se produjo el tres de febrero. Fue, como Treviranus adivinó, un mero simulacro. Gryphius-Ginzberg-Ginsburg soy yo; una semana interminable sobrellevé (suplementado por una tenua barba postiza) en ese perverso cubículo de la Rue de Toulon, hasta que los amigos me secuestraron. Desde el estribo del cupé, uno de ellos escribió en un pilar La última de las letras del Nombre ha sido articulada. Esa escritura divulgó que la serie de crímenes era triple. Así lo entendió el público; yo, sin embargo, intercalé repetidos indicios para que usted, el razonador Erik Lönnrot, comprendiera que es cuádruple. Un prodigio en el Norte, otros en el Este y en el Oeste, reclaman un cuarto prodigio en el Sur; el Tetragrámaton -el nombre de Dios, JHVH- consta de cuatro letras; los arlequines y la muestra del pinturero sugieren cuatro términos. Yo subrayé cierto pasaje en el manual de Leusden: ese pasaje manifiesta que los hebreos computaban el día de ocaso a ocaso; ese pasaje da a entender que las muertes ocurrieron el cuatro de cada mes. Yo mandé el triángulo equilátero a Treviranus. Yo presentí que usted agregaría el punto que falta. El punto que determina un rombo perfecto, el punto que prefija el lugar donde una exacta muerte lo espera. Todo lo he premeditado, Erik Lönnrot, para atraerlo a usted a las soledades de Triste-le-Roy.

Lönnrot evitó los ojos de Scharlach. Miró los árboles y el cielo subdivididos en rombos turbiamente amarillos, verdes y rojos. Sintió un poco de frío y una tristeza impersonal, casi anónima. Ya era de noche; desde el polvoriento jardín subió el grito inútil de un pájaro. Lönnrot consideró por última vez el problema de las muertes simétricas y periódicas.

-En su laberinto sobran tres líneas -dijo por fin-. Yo sé de un laberinto griego que es una línea única, recta. En esa línea se han perdido tantos filósofos que bien puede perderse un mero detective. Scharlach, cuando en otro avatar usted me dé caza, finja (o cometa) un crimen en A, luego un segundo crimen en B, en 8 kilómetros de A, luego un tercer crimen en C, a 4 kilómetros de A y de B, a mitad de camino entre los dos. Aguárdeme después en D, a 2 kilómetros de A y de C, de nuevo a mitad de camino. Máteme en D, como ahora va a matarme en Triste-le-Roy.
Para la otra vez que lo mate -replicó Scharlach-, le prometo ese laberinto, que consta de una sola línea recta y que es indivisible, incesante.
Retrocedió unos pasos. Después, muy cuidadosamente, hizo fuego
Referencia: http://www.apocatastasis.com/borges-la-muerte-y-la-brujula.php#ixzz0jQx5tDiB
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